Accordi internazionali sugli investimenti e Unione europea

AuthorMaria Rosaria Mauro
PositionAssociato di Diritto internazionale nell'Università degli studi del Molise
Pages403-430

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@1. Considerazioni introduttive

1. Il tema del rapporto intercorrente tra il diritto internazionale e il diritto dell'Unione europea è stato ampiamente esaminato dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Peraltro, di recente, il problema della compatibilità tra norme appartenenti a ordinamenti giuridici differenti si è posto in relazione alla disciplina degli investimenti stranieri e, in particolare, in riferimento agli obblighi assunti dagli Stati membri nei Bilateral Investment Treaties (BITs)1, che potrebbero contenere disposizioni incompatibili con il diritto dell'Unione europea. Su tale delicato problema sia la Corte di giustizia dell'Unione europea (già Corte di giustizia delle Comunità europee) sia alcuni tribunali arbitrali hanno avuto modo di pronunciarsi, tuttavia non sembra sia stata trovata una chiara soluzione.

La disciplina degli investimenti transnazionali nell'Unione europea resta, in effetti, un tema controverso: infatti, nonostante i diversi tentativi di estendere i poteri dell'Unione nel settore, principalmente attraverso l'ampliamento dell'ambito di applicazione delle norme relative alla politica commerciale comune, la competenza in materia spetta ancora essenzialmente agli Stati membri.

Importanti novità al riguardo potranno aversi a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che per l'appunto modifica sensibilmente le disposizioni concernenti la politica commerciale comune.

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Tale Trattato, come è noto, fonda l'ordinamento dell'Unione su due trattati di pari valore giuridico: il Trattato sull'Unione europea (TUE) e il Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE)2, il quale sostituisce il Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE).

@2. Il quadro giuridico internazionale: la rilevanza degli accordi bilaterali sulla promozione e sulla protezione degli investimenti

2. Il quadro giuridico internazionale in materia di investimenti stranieri appare complesso e spesso disomogeneo nel contenuto, coesistendo insieme strumenti vincolanti e di soft law, un numero limitato di norme consuetudinarie, pochi accordi multilaterali, un numero crescente di convenzioni regionali e molti trattati bilaterali3.

Il fallimento dei diversi tentativi multilaterali di regolamentazione del regime degli investimenti stranieri e l'incertezza circa il contenuto delle norme consuetudinarie in materia hanno spinto gli Stati a cercare strumenti giuridici alternativi per incoraggiare e allo stesso tempo proteggere gli investimenti dei propri nazionali all'estero. In tale contesto in particolare si è avvertita, alla fine degli anni '50, l'esigenza di elaborare un nuovo tipo di accordo bilaterale, che fosse al tempo stesso nella sua natura specifico, poiché destinato esclusivamente alla promozione e alla protezione degli investimenti, e generale, in quanto applicabile a tutti gli investimenti che rientravano nell'ampia definizione prevista dall'accordo, il quale non doveva essere limitato nella sua applicazione a particolari settori dell'economia.

Dal 1959, anno in cui venne firmato il primo accordo bilaterale sulla promozione e la protezione degli investimenti4, tali trattati sono stati conclusi in numero via via maggiore5.

Mentre inizialmente questi accordi erano destinati a disciplinare le relazioni tra Paesi di diverso livello di sviluppo economico, i BITs vengono ormai conclusi indistintamente tra tutti gli Stati, siano essi Paesi in via di sviluppo, Paesi industrializzati o Paesi a economia in transizione e la rete convenzionale coinvolge ormai la quasi totalità degli Stati.

I Paesi dell'Europa occidentale sono quelli che per primi hanno iniziato a concludere BITs e sono tra quelli che ne hanno concluso in numero maggiore. Anche gli Stati dell'Europa orientale hanno firmato negli anni numerosi accordi

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bilaterali sulla promozione e la protezione degli investimenti, che hanno rappresentato uno strumento importante per creare in tali Paesi condizioni favorevoli per gli investimenti stranieri dopo la fine dei regimi socialisti e delle economie di Stato. Proprio per tale ragione l'Unione ha inizialmente incoraggiato la conclusione di trattati di questo tipo tra gli Stati membri e quelli dell'Europa dell'est, ritenendoli complementari agli accordi di associazione che erano via via conclusi con questi ultimi6.

Il fine dei BITs è quello di assicurare all'investitore elevati standard di protezione, attraverso norme concernenti le definizioni di investimento e di investitore, le condizioni di ingresso dell'investimento straniero, gli standard generali di trattamento, le condizioni di gestione dell'investimento, i trasferimenti monetari, la protezione contro misure di nazionalizzazione ed espropriazione, l'indennizzo per danni subiti a causa di conflitti armati e disordini interni, la surroga dello Stato all'investitore indennizzato, la soluzione delle controversie tra Stati contraenti o tra uno Stato contraente e un investitore dell'altro Stato contraente7.

@3. La disciplina degli investimenti transnazionali nell'Unione europea

3. La disciplina degli investimenti transnazionali nell'Unione europea appare attualmente estremamente frammentaria e poco uniforme, ciò soprattutto a causa della complessa divisione delle competenze in materia tra gli Stati membri e l'Unione. Infatti, gli Stati membri disciplinano gli aspetti relativi al trattamento e alla protezione degli investimenti stranieri sia attraverso normative nazionali sia, soprattutto, tramite accordi internazionali e, in particolare, i BITs.

Da tale insieme articolato e, talvolta, poco coerente di norme deriva spesso l'applicazione agli investitori - dell'Unione ed extra-UE - di regimi che variano a seconda del Paese membro in cui essi decidono di realizzare il proprio investimento. Contemporaneamente, la mancanza di una competenza esclusiva e generale dell'Unione europea nel settore degli investimenti comporta che vi siano livelli di protezione differenti per gli investitori dei Paesi membri che operano all'estero.

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In tale panorama complesso, quindi, si manifesta l'esigenza di una politica dell'Unione specifica in materia di investimenti transnazionali, sia perché sempre più frequentemente gli investitori di Stati terzi richiedono l'applicazione di norme comuni su tutto il territorio dell'Unione, sia per evitare discriminazioni tra investitori degli Stati membri, sia per consentire agli investitori dei Paesi dell'Unione di essere più competitivi nei mercati stranieri.

Disposizioni che possono incidere sugli investimenti stranieri erano già presenti, in realtà, nel TCE, le quali riguardavano il diritto di stabilimento e i movimenti di capitali8. Tuttavia, non è mai stata inserita in tale Trattato una norma specifica sulla quale fondare la competenza dell'Unione in materia di trattamento e protezione degli investimenti intra-UE, stranieri nei Paesi membri e di quelli dei nazionali dei Paesi membri negli Stati terzi9.

Per quanto riguarda in particolare la competenza esterna in tale settore, sulla base del TCE essa appare molto limitata10, sebbene vi fossero nel Trattato norme che hanno consentito alla Comunità europea di negoziare e concludere accordi internazionali relativi agli investimenti. La stessa Corte di giustizia ha, in passato, ritenuto che la competenza a concludere accordi internazionali sugli investimenti con Stati terzi spettasse principalmente agli Stati membri, in particolare per quanto riguarda gli aspetti della protezione e della promozione11. I singoli Stati membri hanno perciò concluso un numero elevatissimo di BITs, sia intra-UE sia con Stati terzi, mentre la Comunità si è limitata, in genere, a confermare i principi contenuti negli accordi bilaterali sugli investimenti, impegnandosi, ad esempio, a migliorare l'accesso al mercato, promuovere i flussi di capitali legati agli investimenti, favorire la circolazione del personale chiave e l'applicazione del trattamento nazionale.

Dato il quadro giuridico di competenze limitate e ripartite, la Comunità europea ha tentato di ampliare nella prassi i propri poteri in materia di investimenti,

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sia tramite l'estensione della nozione di politica commerciale comune12 sia concentrandosi inizialmente nelle aree non coperte dagli accordi internazionali degli Stati membri. Infatti, essa ha originariamente considerato la propria politica in materia di investimenti stranieri complementare a quelle nazionali, inserendo norme sui movimenti di capitali e la promozione degli investimenti in strumenti relativi all'azione svolta in altri contesti, principalmente nell'ambito della cooperazione allo sviluppo13, estendendo poi gradualmente la propria azione esterna in materia di investimenti stranieri ad altri aspetti, come l'accesso degli investimenti.

Tuttavia, gli accordi conclusi dalla Comunità che riguardano anche gli investimenti stranieri contengono norme in materia di protezione spesso molto limitate nel contenuto, perciò essi potrebbero non essere idonei a sostituire i BITs negoziati dagli Stati membri, la cui conclusione è anzi talvolta espressamente prevista nei capitoli sugli investimenti degli accordi in questione14.

In particolare, per quanto riguarda poi il problema della soluzione delle controversie tra lo Stato ospite e l'investitore dell'altro Stato contraente, da cui dipende l'effettività della protezione degli investimenti stranieri garantita dal trattato stesso, in quasi tutti gli accordi sulla promozione e la protezione degli investimenti sono previste norme specifiche.

Tra i diversi strumenti il principale è indubbiamente l'arbitrato dell'ICSID (International Centre for Settlement of Investment Disputes)15, il Centro internazionale per il regolamento delle controversie in materia di investimenti istituito dalla Convenzione di Washington del 1965, al quale si fa generalmente riferimento nei BITs. L'Unione europea non è però membro del Centro, come non lo era la Comunità, non potendo comunque attualmente divenire parte...

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