L’occupazione acquisitiva dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo

AuthorUgo Villani
PositionOrdinario di Diritto dell’Unione europea nell’Università di Roma "La Sapienza"
Pages23-44

    Il presente scritto riproduce, con gli opportuni aggiornamenti e riferimenti bibliografici, la relazione svolta al Convegno su “Il tramonto dell’occupazione acquisitiva”, organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Bari e tenutosi il 21 ottobre 2005 presso la Corte d’appello di Bari.

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@1. Nozione di occupazione acquisitiva

1. L’istituto italiano della occupazione acquisitiva (o appropriativa), detta anche espropriazione indiretta o accessione invertita, è da tempo all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo sotto il profilo della sua conformità all’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, adottato a Parigi il 20 marzo 1952, il quale tutela il diritto di proprietà. Com’è noto, questo articolo, al primo comma, dopo avere affermato il diritto di ogni persona fisica o giuridica al rispetto dei suoi beni, consente l’espropriazione, ma solo per una causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Sebbene tale disposizione non prescriva espressamente, quale condizione della espropriazione, l’obbligo, per l’autorità espropriante, di corrispondere un indennizzo al titolare dei beni, il predetto obbligo è stato costantemente affermato dalla giurisprudenza europea1. QuestaPage 24 lo ha dedotto, da un lato, dalla considerazione che, in mancanza di un indennizzo, lo stesso diritto di proprietà finirebbe per essere vanificato2; dall’altro, dalla necessità di assicurare un giusto equilibrio tra l’interesse generale cui l’espropriazione è preordinata e il diritto del singolo3. Il rispetto di tale equilibrio implica che sia osservato un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi usati – la privazione dei beni – e lo scopo di pubblica utilità, rapporto che, in principio4, comporta una compensazione della privazione dei beni mediante l’indennizzo.

È alla luce di tale disposizione che si è posto il problema della legittimità dell’istituto della occupazione acquisitiva5. Esso è nato dalla giurisprudenza, in specie della Corte di cassazione, spinta a dire una parola definitiva rispetto ad una prassi frequente della pubblica amministrazione, consistente nell’occupare un suolo privato e destinarlo in maniera irreversibile ad una finalità di pubblica utilità senza osservare (in tutto o in parte) le prescrizioni del procedimento espropriativo; in altri termini operando in maniera illegittima. La destinazione ad un fine di pubblica utilità avviene mediante la costruzione, sul terreno occupato, di un’opera permanente, quale una strada, una scuola, abitazioni rientranti nell’edilizia economica e popolare, ecc., da parte della pubblica autorità o anche di un suo concessionario (per esempio una cooperativa edilizia).

La prassi in esame si articola in tre ipotesi. Una prima si ha quando vi sia stata, all’origine, una dichiarazione di pubblica utilità, eventualmente anche implicita (come con l’approvazione di un piano regolatore), seguita, solitamente, da un provvedimento di occupazione d’urgenza, ma non dal decreto di espropriazione nei termini prescritti. Una seconda ipotesi si determina quando sia stata emanata la serie di atti del procedimento di espropriazione per pubblica utilità, ma essi siano stati dichiarati illegittimi dal giudice amministrativo. Infine si danno casi nei quali sia l’occupazione del terreno che la costruzione dell’opera siano effettuate in assenza di qualsiasi provvedimento della pubblica amministrazione, compresa la dichiarazione di pubblica utilità. Come si vedrà, la primaPage 25 ipotesi verrà progressivamente a staccarsi dalle altre due e solo in essa sarà riconosciuto un passaggio della proprietà privata alla pubblica amministrazione.

@2. Ricostruzione “pretoria” dell’istituto nella sentenza della Corte di cassazione del 26 febbraio 1983 n. 1464

2. La giurisprudenza della Cassazione aveva espresso, tra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ‘80, orientamenti sensibilmente differenziati, che avevano prodotto uno stato di estrema incertezza giuridica6. Secondo un primo orientamento il proprietario del fondo occupato ne perdeva la proprietà al momento della irreversibile trasformazione del bene, mediante il completamento dell’opera di pubblica utilità, e aveva diritto al risarcimento dei danni. In altri casi la Suprema Corte aveva affermato, invece, che il proprietario non perdeva la proprietà del fondo; tuttavia egli non poteva domandare la restituito in integrum, ma solo il risarcimento dei danni, non sottoposto ad alcun termine di prescrizione, rappresentando l’occupazione un illecito di carattere permanente. Sempre secondo questo orientamento, la pubblica amministrazione poteva adottare in ogni momento un provvedimento formale di espropriazione, a seguito del quale l’azione di risarcimento veniva a trasformarsi in azione volta ad ottenere l’indennità di espropriazione (permanendo, peraltro, un diritto al risarcimento per i danni conseguenti al mancato godimento del fondo nel periodo precedente il decreto di espropriazione). Altre volte, infine, la Corte di cassazione aveva dichiarato che, poiché, nell’ipotesi in esame, il titolare del fondo non ne perdeva la proprietà, egli ne poteva chiedere la restituzione da parte della pubblica amministrazione con ripristino della situazione preesistente all’occupazione (per esempio, la demolizione dell’opera costruita).

In questo quadro interveniva la Corte di cassazione a sezioni unite, con la celebre sentenza del 26 febbraio 1983 n. 14647, al fine di operare una scelta tra i diversi orientamenti e di fornire una ricostruzione giuridica esaustiva della regolamentazione del fenomeno in esame.

In tale sentenza la Corte prende atto dello stato confuso della giurisprudenza sia in merito alla perdita o meno della proprietà del terreno da parte del privato, sia riguardo al carattere permanente o istantaneo dell’illecito commesso dall’amministrazione mediante l’occupazione illegittima del fondo (con conseguenze rilevanti in ordine al dies a quo della prescrizione del diritto al risarcimento dei danni). Essa considera in maniera sostanzialmente unitaria l’ipotesi di occupazione illegittima di un fondo privato da parte della pubblica amministrazione (o di un suo concessionario) per la costruzione di un’opera di pubblica utilità, sia quando l’illegittimità derivi dalla totale mancanza di provvedimento autorizzativo, sia quando essa sia dovuta al decorso dei termini entro i quali doveva essere emesso il provvedimento di espropriazione. Sembra ragionevole, pertanto, assimilare a tali fattispecie – nella ricostruzione della Cassazione – quella in cui ilPage 26 giudice amministrativo abbia annullato gli atti del procedimento di espropriazione (quali la dichiarazione di pubblica utilità, o il provvedimento di autorizzazione all’occupazione d’urgenza, o lo stesso provvedimento di espropriazione).

La sentenza in esame afferma che la radicale trasformazione del fondo, che si verifica con la sua irreversibile destinazione al fine dell’opera pubblica, determina, in tale momento, l’acquisto della proprietà del fondo da parte della pubblica amministrazione a titolo originario; non già, quindi, a seguito di un provvedimento, ma in base al fatto stesso di tale radicale trasformazione del fondo.

La Corte ricava questa soluzione dai principi generali dell’ordinamento italiano relativi ai modi di acquisto della proprietà a titolo originario, in particolare dagli articoli 934 ss. c.c. Tali principi mettono in luce, anzitutto, l’impossibilità di ammettere la coesistenza di due distinti diritti di proprietà, uno sul suolo, in capo all’originario titolare, l’altro sulla costruzione, in capo al costruttore, salva l’ipotesi eccezionale della costituzione del diritto di superficie ex art. 952 c.c. (ipotesi che ha origine nella regolamentazione negoziale degli interessi in giuoco ed è, quindi, del tutto estranea all’occupazione della pubblica amministrazione, caratterizzata dalla unilateralità dell’iniziativa del costruttore). I principi in materia mostrano che la regola per la composizione del conflitto tra i diversi proprietari – rispettivamente del fondo e della costruzione – consiste nell’attribuzione della intera proprietà dell’uno e dell’altra al soggetto portatore dell’interesse ritenuto prevalente, secondo una valutazione d’ordine economico-sociale correlata al livello di sviluppo della società civile.

Sul versante privatistico tale regola comporta la prevalenza della proprietà del suolo, avente un valore preminente rispetto ai materiali adoperati per la costruzione, determinandosi così la figura dell’accessione, nella quale il proprietario del fondo acquista anche la proprietà della costruzione effettuata da un terzo sul fondo (art. 936 c.c.). Sul versante pubblicistico è, invece, l’interesse pubblico, di cui è portatore l’ente autore della costruzione, che è destinato a prevalere su quello privato del proprietario del fondo. Ciò produce risultati opposti rispetto all’accessione privatistica – di qui la denominazione di “accessione invertita” –, ma in omaggio allo stesso principio della concentrazione della proprietà del suolo e della costruzione in capo all’unico soggetto portatore dell’interesse ritenuto prevalente. Tale soggetto è, evidentemente, l’ente pubblico, il quale ha agito per la soddisfazione di un interesse della collettività, cui l’opera è destinata, e che pertanto – nella valutazione della coscienza collettiva interpretata dall’ordinamento nel momento attuale – è visto come vincente nel conflitto con l’interesse del privato.

Se – come si è accennato – l’acquisto di proprietà consegue ad ogni ipotesi di illegittima occupazione di un fondo privato, la disciplina del momento di acquisto varia a seconda della originaria presenza o meno di un provvedimento autorizzativo dell’occupazione. Ove un provvedimento del genere manchi del tutto, l’acquisto (a titolo originario) della proprietà sul fondo da parte dell’ente pubblico autore...

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