Come l'Ue ha domato (parzialmente) il Leviatano. Il contributo del pensiero liberale

AuthorAngelo Santagostino
Pages105-122

Page 105

@1. Introduzione

La diffusione dei principi dell’economia keynesiana dalla fine degli anni Quaranta del XX secolo, ha modificato un principio base della finanza pubblica, quello del pareggio annuale del bilancio statale, che venne sostituito con il pareggio nell’arco del ciclo economico. Mai teoria fu più disattesa dalla politica. Una volta caduto nelle orecchie di chi la spesa pubblica la manovra, cioè dei Parlamenti, degli uomini politici e delle loro organizzazioni, questo messaggio subì un’evidente trasformazione. Esso fu generalmente inteso nel mondo occidentale come una sorta di «licenza di spendere», da utilizzarsi per la ricerca di consensi, cioè di voti. In definitiva la manovra della spesa pubblica, pensata, in origine, da Keynes per alleviare il ciclo economico, venne reinventata dai politici per regolare i cicli elettorali.

Questa logica è alla base del sensibile aumento nei disavanzi pubblici registratesi nelle economie occidentali a partire dagli anni Cinquanta. Disavanzi e debiti pubblici, praticamente impossibili da contenere nelle loro dimensioni sino a tutti gli anni Ottanta, sono stati, parzialmente, domati grazie all’introduzione di quella che si può definire la Costituzione fiscale di Maastricht. L’Europa è, dunque, riuscita, nello spazio di meno di un decennio a ingabbiare il Leviatano.

“Elogio della follia fiscale”, potrebbe essere questo il titolo di stampo erasmiano, di un saggio che volesse, in modo ironico, raccontare al contribuente come gli Stati, sotto l’abbaglio del messag-

Page 106

gio keynesiano, si siano sbarazzati del principio secondo il quale le finanze pubbliche e quelle private obbediscono alle medesime regole di saggezza, per sostituirlo con quello (dimostratosi devastante) che quanto vale a livello privato non deve necessariamente valere a livello pubblico, cosa ancora predicata , come si legge in un documento dell’UNCTAD del 2008 a proposito della crisi finanziaria scoppiata nel 2007:

“For policymakers worldwide, it is more important than ever to understand that the laws applicable to the overall economy are fundamentally different from those underlying the behaviour of an individual household of firm”1.

Quella dell’UNCTAD non è un’opinione né isolata né, tanto meno, dell’oggi. Riflette una più ampia visione, che ha come sua base teorica il keynesismo, secondo la quale le leggi economiche che si applicano allo Stato non sono le medesime che presidiano il comportamento delle famiglie o delle imprese. O meglio che lo Stato possa prescindere dal rispetto di determinate leggi economiche. Una razionale spiegazione di ciò, vale dirlo, non è mai stata fornita. Chi aveva l’onere della prova si è ben guardato dal fornirla. Missione impossibile, del resto.

La critica liberale alle dottrine di Keynes aveva portato, negli anni Trenta, ad uno scontro epocale tra la Scuola austriaca e la London School of Economics da una parte e Cambridge dall’altra2, anche se i primi contrasti tra Keynes e Mises risalgono al 1912. Molti erano i punti di contrasto. Innanzitutto la Scuola austriaca metteva in discussione le fondamenta stesse della macroeconomia, a partire dalla relazione tra occupazione e domanda aggregata, nonché (come conseguenza) il paradosso del risparmio. Hayek in tempi pre-General Theory e pre-Treatise lo aveva smontato dal punto di vista teorico e definito come una riedizione delle teorie ottocentesche del sottoconsumo. Quanto più divideva gli “austriaci” da Keynes riguardava l’efficacia dell’interventismo sta-1 UNCTAD Policy Brief, The “crisis of the century” October, 2008. Rinvenibile all’indirizzo internet:http://www.UNCTAD.org/en/docs/presspb20083_en.pdf

Page 107

tale attraverso la leva della spesa pubblica. Fu una disputa teorica, ma non certo scevra da venature politiche. Keynes si concentrava sui fallimenti del mercato, ma proprio perché imbevuto dei “presupposti di Harvey Road”3, non concepiva possibili errori della politica e conseguenti fallimenti dell’intervento pubblico. Come ha scritto Sergio Ricossa, “gli errori del potere politico possono provocare disastri anche più devastanti di quelli di un semplice operatore economico”4, era proprio ciò di cui gli economisti austriaci erano fermamente convinti, tutto il contrario dei keynesiani. La vulgata keynesiana ebbe, allora, la meglio sul pensiero austriaco. Keynes scalzò Hayek e la Scuola austriaca sulla base del seducente (per i politici) argomento che i disavanzi erano il prezzo da pagare (da parte dei contribuenti, ma questo veniva rigorosamente taciuto) per il grande obiettivo del pieno impiego. Keynes ebbe il (de)merito di far credere a tanti economisti, al pubblico ed alla politica (ma per questa si trattò di una occasione assolutamente ghiotta) che il bilancio pubblico e la sua manovra fossero uno strumento per la prosperità. Argomento fallace, in primis; mentre ben altre furono le cause della prosperità della seconda metà del XX secolo.

In effetti, a partire dagli anni Cinquanta, nell’ambito dei paesi industrializzati si assiste ad una spettacolare crescita dell’economia; senza soluzione di continuità sino ai primi anni Settanta. La sua causa fu la liberalizzazione degli scambi, il ritorno al multilateralismo; quindi gli accordi Gatt, Cee e le altre forme di integrazione regionale, che sospinsero la ricerca dell’efficienza e l’innovazione nell’ambito di un economia di mercato e nella quale operavano agenti economici privati, anche se vi furono e vi sono (eccezione che conferma la regola) casi di imprese pubbliche di eccellenza. Il commercio internazionale fu il vero motore dello sviluppo, come scriveva in quegli anni Innocenzo Gasparini:

“Va ancora ricordato che era ferma nella maggior parte dei Paesi la concezione che i rapporti di commercio internazionale non dovevano uscire dalla sfera privatistica, essendo il commercio internazionale compito dei privati, non una funzione pubblica. L’intervento pubblico era inteso soltanto sotto forma di dazi, i quali, per altro, non

Page 108

erano particolarmente elevati e, attraverso il largo ricorso alla clausola della nazione più favorita, tendevano piuttosto a cadere anziché ad aumentare il livello medio della protezione doganale”5.

Tale meccanismo di crescita ha operato negli anni cinquanta e nel successivo decennio. Nulla di quella crescita fu dovuto alle politiche di deficit spending, che ebbero effetti di accelerazione delle dimensioni della spesa, dei disavanzi e del debito pubblico, ma anche dell’inflazione. In definitiva la molla di propulsione dell’economia mondiale venne dal settore privato, non da quello pubblico. Anzi, il crescere delle dimensioni della spesa pubblica e dei disavanzi di bilancio ha poi agito come fattore di freno dello sviluppo. Ciò attraverso una crescita della spesa meno efficiente rispetto a quella del settore privato, a bilanci in disavanzo che hanno indotto espansioni monetarie, causa di più forti spinte inflazionistiche. L’età dell’oro, il venticinquennio di forte crescita tra il 1948 ed il 1973, al di là della crisi petrolifera, non terminò per l’esaurirsi del modello di sviluppo basato sul libero commercio internazionale, ma per la progressiva perdita di efficienza per via della crescita del settore pubblico.

Come sopra accennato il punto di maggior distacco tra la dottrina austriaca e quella keynesiana si manifesta in merito a efficacia e conseguenze dell’intervento dello Stato nell’economia ed in particolare agli effetti (in termini di cattiva allocazione delle risorse ed inflazionistici) di persistenti disavanzi.

Come passo successivo alla critica teorica sul ruolo dell’intervento dello Stato, il pensiero liberale ha puntato ad elaborare strumenti di costituzionalismo economico volti ad arginare l’espansione della spesa statale ed il crescere di disavanzi e debiti pubblici. In quest’ottica si colloca, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, la Scuola di Public Choice e l’opera del suo fondatore e principale esponente James Buchanan.

Molto meno noti sono gli apporti, tra la seconda metà degli anni Quaranta ed i primi anni Cinquanta, di un grande esponente del liberalismo italiano: Luigi Einaudi.

Con Einaudi nasce il costituzionalismo economico.

Page 109

Einaudi negli anni nei quali più fervevano le iniziative che avrebbero dato il via ai cantieri della costruzione europea, ricopriva la carica di presidente della Repubblica (1948-1955). Ruolo che, come vedremo ora, non gli impedì di scrivere e di far sentire il proprio parere, ma che non gli permise per certo di giocare un ruolo politico né per il Trattato Ceca né per quello Cee. Da liberale di solida impostazione non si fece mai travolgere dalle mode, non fu mai un keynesiano. La sua fu una critica di netto stampo austriaco alla “teoria degli investimenti venuta di gran moda dopo la crisi del 1929”:

“[…] parve allora a qualcheduno di osservare l’esistenza di un eccesso di risparmio, [..] Non è facile configurare un eccesso di risparmio. […] Questa era la teoria la quale non sembra abbia avuto applicazione in altri periodi e soprattutto in altri paesi e pure negli stessi due sopra ricordati [Stati Uniti e Gran Bretagna, NdA] in momenti diversi da quelli da cui trasse occasione la teoria”6.

Questo scriveva il presidente Einaudi nel 1950. Pochi anni prima era stato membro della Costituente. Fu autore di vari articoli e furono numerosi i suoi interventi...

To continue reading

Request your trial

VLEX uses login cookies to provide you with a better browsing experience. If you click on 'Accept' or continue browsing this site we consider that you accept our cookie policy. ACCEPT