L’influenza della “Costituzione europea” sul diritto (statale) di libertà di religione

AuthorNicola Colaianni
PositionOrdinario di Diritto ecclesiastico nell’Università degli studi di Bari
Pages315-334

    Questo scritto è destinato anche agli Studi in onore di Vincenzo Starace, di prossima pubblicazione.

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@1. Il senso della “Costituzione europea”

1. Può sembrare tecnicamente improprio, se non se ne offre preliminarmente qualche osservazione esplicativa, l’uso disinvolto dell’espressione “Costituzione europea” dopo non solo l’infelice esito dei referendum popolari sul Trattato che l’adotta, svoltisi in Francia e in Olanda, ma anche la sostanziale inerzia reattiva che, quali che siano le presidenze che si alternano, sta caratterizzando l’Unione. E, tuttavia, nonostante la dura realtà di un processo di integrazione, che si sta rivelando difficile a livello profondo, il fantasma della Costituzione si aggira da tempo in Europa e i ritardi e le omissioni di alcuni Stati o di alcuni popoli europei, insieme ai noti difetti originari e strutturali, non valgono ad impedire che esso prenda corpo.

Non è questa la sede per tornare sulla questione di fondo relativa alla derivabilità di una Costituzione davvero espressiva di una sovranità, e quindi atteggiantesi e percepita come higher law, da trattati eteronomi, sempre nella disponibilità degli Stati stipulanti che possono ad libitum recederne: ancorché non possa trascurarsi che, da quando la Corte di giustizia – or sono più di vent’anni – la usò per la prima volta, la categoria “carta costituzionale di base costituita dal Trattato”1 non è stata lasciata cadere nel vuoto ma è stata implementata dalla successiva giurisprudenza tanto quanto dalla dottrina nel quadro dell’auspicata “costituzionalizzazione” dell’ordinamento della Comunità2.

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Ma in ogni caso è un fatto che, come osservò dopo l’approvazione della Carta di Nizza Peter Häberle, “l’Europa vive già un ensemble di costituzioni parziali”3 in parte già scritte, come i Trattati istitutivi e le stesse costituzioni nazionali, nelle parti residuate alla sottrazione di alcuni ambiti di sovranità apportata dai primi, in parte non scritte come le “tradizioni costituzionali comuni dei Paesi membri” in materia di tutela dei diritti fondamentali, invocate originariamente dalla Corte di Lussemburgo4 come limiti ai suoi interventi giurisdizionali e poi richiamate nell’art. 288, 2° comma, Trattato CE e successivamente nell’art. 6, par. 2, del Trattato UE (e nell’art. I-9, par. 3, di quello sulla Costituzione).

È proprio con riferimento a queste tradizioni che si può parlare già oggi, nonostante la posizione di stand-by del Trattato istitutivo, di una “costituzione europea” nel senso specifico, coincidente con la tutela dei diritti fondamentali, che a tale espressione attribuisce il costituzionalismo contemporaneo5. Certo, esse integrano una regola di interpretazione giurisprudenziale piuttosto che una fonte normativa6, tanto che sovente in passato il dibattito s’è incentrato sull’opportunità – a motivo della loro inconfigurabilità come fonti – di recepire a tal fine nel diritto comunitario i principi della Convenzione europea per la salvaguardia delle libertà fondamentali e dei diritti dell’uomo, nel Trattato di Maastricht richiamata solo come parametro del garantismo di quei diritti e, quindi, a sua volta non come fonte normativa7.

In effetti la Convenzione ha conosciuto un notevole rafforzamento come fonte principale in materia di diritti fondamentali dal momento in cui, con il Protocollo addizionale del 1998, la sua applicazione è stata sottratta al filtro della Commissione e affidata interamente all’organo giurisdizionale, dotato di terzietà e perciò circondato da affidabilità8. Grande forza alla sua recezione nella giurisprudenza italiana, poi, ad essa è derivata dal nuovo art. 117 Cost., modifi-Page 317cato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, con cui si è introdotto l’obbligo anche per il legislatore statuale di rispettare i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali e, quindi, dalle norme della CEDU.

Tuttavia, l’adesione dell’Unione alla CEDU, fino a qualche anno fa auspicata come un salto qualitativo e del resto ancora ipotizzata seppur con un caveat nell’art. I-9 del Trattato costituzionale, in effetti, dopo l’approvazione di un’altra Costituzione parziale come la Carta di Nizza, comincia ad andare stretta: quel catalogo dei diritti fondamentali è apparso improvvisamente piuttosto “vecchiotto”9 al confronto con la forte carica innovativa della Carta e la sua evidente discontinuità10 rispetto al modo ordinario in cui la stessa Europa “allargata” guarda ai diritti fondamentali, specie sociali. Tanto più perché la Carta di Nizza, pur avendo a sua volta valore non di fonte normativa ma piuttosto di soft law, sta ricevendo una larga utilizzazione giurisprudenziale sia nelle Corti statali11 sia in quelle europee12, nelle quali anzi si osserva una progressiva caduta degli originari “distinguo”. Invero, in un primo momento la Corte di Lussemburgo non aveva mancato di rimarcare che “la Carta non costituisce uno strumento giuridico vincolante” e ne aveva giustificato il richiamo, nel caso, con il fatto che “il legislatore comunitario ha tuttavia inteso riconoscerne l’importanza affermando, al secondo ‘considerando’ della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare che quest’ultima rispetta i principi riconosciuti non solamente dall’art. 8 della CEDU, bensì parimenti dalla Carta”13. In una più recente decisione, tuttavia, la Corte ha persino evitato di precisare che l’applicazione della Carta avveniva per effetto della sua ricezione da parte degli organi comunitari nel testo di tutte le direttive adottate dopo il dicembre 2000, ma l’ha invocata senz’altro accanto ai principi generali del diritto comunitario e alla CEDU, in connessione cioè con l’art. 6 TUE14.

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L’applicazione senza remore della Carta rende in qualche modo ultronea l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, giacché la convergenza ivi in certa misura delineata tra diritto comunitario e diritto CEDU in direzione di un comune patrimonio europeo si va sempre più evolvendo verso un agguagliamento della CEDU al diritto comunitario quanto agli effetti sul diritto italiano. Depongono in questo senso le norme che prevedono misure di raccordo della legislazione nazionale alle pronunce CEDU e l’equiparazione della responsabilità da violazioni CEDU a quella da violazioni comunitarie15. Nè altro senso può attribuirsi alle ordinanze con cui la Corte di cassazione ha sollevato questioni di costituzionalità di norme italiane con l’art. 117 Cost. per relationem alle norme CEDU, che grazie al nuovo dettato costituzionale “divengono norme interposte, attraverso l’autorevole interpretazione che ne ha reso la Corte di Strasburgo, nel giudizio di costituzionalità”16.

Questa tendenza trova sostegno nella piena e diffusa utilizzazione della Carta di Nizza e delle tradizioni costituzionali comuni sul piano non della teoria delle fonti (perché tali, come detto, esse non sono) ma della teoria dell’interpretazione17: la quale ne impone un’applicazione ordinariamente immediata (senza, cioè, il ricorso alla Corte costituzionale) fino al punto di ritenere ammissibile la disapplicazione della legge ordinaria contrastante con norme della Carta e della Convenzione18, grazie alla copertura che ad esse deriva dall’art. 117, 1° comma, e ancor prima dall’art. 2 Cost.

@2. Il diritto costituzionale europeo di religione

2. Questa già vigente, ancorché incompleta, Costituzione europea riconosce quello che si potrebbe definire il “diritto costituzionale europeo di religione”, comprensivo ma non coincidente con il diritto costituzionale europeo ecclesiastico (risultante dalla dichiarazione n. 11 allegata al Trattato di Maastricht, poi riversata nell’art. I-52 del Trattato costituzionale) e perciò distinto, ad esempio, dal cosiddetto “diritto ecclesiastico statale” italiano o dallo Staatskirchenrecht tedesco19. Esso trova la sua collocazione centrale nella norma sulla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, che l’art. 10 della Carta di Nizza (II-70 del Trattato costituzionale) mutua letteralmente dall’art. 9 CEDU, ma senza riprodurne il secondo paragrafo relativo alle restrizioni per motivi di ordine pubblico, di salute, di morale pubblica o di protezione degli altrui diritti e libertà: e senza, quindi, lasciare al riguardo un margine di apprezzamento agli Stati. E che laPage 319 Carta di Nizza abbia inteso aumentare consapevolmente il livello di tutela risulta per tabulas dal fatto che essa ha mutuato quasi alla lettera gli enunciati normativi anche degli articoli 10 e 11 della Convenzione europea, ma omettendone i commi relativi alle restrizioni analoghe a quelle previste dall’art. 9: una riproduzione, quindi, abrogatrice in parte qua, che non può essere interpretata come meramente programmatica.

Senonchè, sul piano della effettività della tutela, questa riespansione del diritto verrebbe pregiudicata dal richiamo alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che in materia ha manifestato più volte l’intento di accogliere le ragioni addotte dagli Stati20, rispettandone gli interessi già con il fatto di decidere la stragrande maggioranza dei ricorsi, prima dell’1 novembre 1998, data dell’entrata in vigore del Protocollo n. 11 alla CEDU, in Commissione, senza pubblicità e con motivazione di stile21.

Invero, il controlimite posto dall’art. 9, par. 2 CEDU alle indicate restrizioni al diritto di libertà di pensiero, di coscienza e di religione – l’essere, cioè, quelle “misure necessarie in una società democratica” – subisce spesso una dissolvenza a favore degli interventi restrittivi degli Stati. Benché le affermazioni di principio vadano nel senso che “any interference must correspond to a ‘pressing social need’” e che “the notion ‘necessary’ does not have the flexibility of such expressions as ‘useful’ or ‘desirable’22, in concreto la giurisprudenza ha giustificato restrizioni magari comprensibili sotto il profilo della storia politica degli Stati ma...

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