La East African Court of Justice

AuthorConcetta Piscitelli
ProfessionDottore di ricerca in Diritto internazionale e già assegnista di ricerca dell'Università degli Studi di Bari.
Pages131-148

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  1. La East African Community (d’ora in poi, la Comunità) nasce come organizzazione economica a carattere subregionale nel Continente nero e attualmente riunisce le repubbliche di Burundi, Kenya, Rwanda, Uganda e la Repubblica unita di Tanzania. Il Trattato istitutivo (d’ora in poi, il Trattato) è stato firmato dagli Stati membri originari – Kenya, Uganda e Tanzania – il 30 novembre 1999 ed è entrato in vigore, a seguito di ratifica degli stessi, il 7 luglio 2000; emendamenti sono stati successivamente apportati, il 14 dicembre 2006 e il 20 agosto 2007. La cooperazione nella regione dell’Africa orientale si è allargata con l’adesione di Rwanda e Burundi (18 giugno 2007), che sono membri a pieno titolo della Comunità a partire dal 1° luglio 2007. Pur di recente formazione la Comunità consacra una collaborazione di lunga data1, e ciò spiega tra l’altro l’avanzato livello di integrazione già raggiunto nella regione e la prospettiva di dare vita ad una federazione politica.

    (d’ora in poi, la Corte) è una delle otto istituzioni della Comunità ai sensi dell’art. 9 del Trattato2 e le norme che la riguardano (art. 23 e seguenti) sono senz’altro le più interessanti per misurare quanto

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    gli Stati membri siano stati disposti a sacrificare la propria sovranità per integrarsi nella nuova organizzazione. Non potrebbe certo dirsi che l’attuale Corte abbia ereditato il ben limitato ruolo che era della East African Court of Appeals ai tempi della vecchia Comunità che riuniva i tre membri originari. Quella Corte, come la stessa denominazione del resto sta ad indicare, fungeva da istanza d’appello in materia civile e penale avverso le decisioni delle giurisdizioni interne degli Stati membri eccetto che per le questioni attinenti alle costituzioni nazionali, che si erano volute riservare alle alte corti nazionali, e per il reato di tradimento in relazione alla Tanzania; essa aveva cessato di operare con lo sfaldamento della Comunità nel 1977. A parte la differente composizione dell’attuale Corte, il sistema interno agli Stati viene ora integrato da competenze giurisdizionali che sono state riscritte completamente – e senz’altro arricchite – sul modello della Corte di giustizia delle Comunità europee ovvero, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, dell’Unione europea.

    Con i recenti emendamenti al Trattato è stata tra l’altro introdotta un’importante innovazione: la Corte unica, ai sensi dell’art. 23, è stata scissa in una first instance Division e una Appellate Division dinanzi a cui fare ricorso avverso tutte le decisioni emesse dalla prima, mentre in precedenza le decisioni della Corte erano emesse in unico grado. La Corte è comunque concepita come un’istituzione unica: nel Trattato, infatti, è indicato in quindici il numero massimo dei giudici della Corte da ripartirsi tra la sezione di prima istanza, cui ne spettano dieci, e la sezione d’appello, cui ne spettano cinque, ai sensi dell’art. 24, par. 23;

    inoltre, il presidente della sezione d’appello, oltre ad essere tale, è anche posto a capo della Corte ed è responsabile dell’amministrazione e della supervisione della Corte, ai sensi dell’art. 24, par. 7, lett. a)4.

    La Corte, insieme con la East African legislative Assembly, è stata inaugurata ad Arusha il 30 novembre 2001 e la sua sede è stata ivi provvisoriamente ubicata fino a quando il Summit, cui spetta di decidere ai sensi dell’art. 47 del Trattato, non avrà stabilito quella permanente. L’art. 6 delle Regole di procedura della Corte precisa però che la Corte può discrezionalmente disporre che tutto o parte del procedimento si tenga in un luogo diverso in relazione alle specifiche circostanze dei singoli casi. Quest’ultima disposizione, da intendersi come già operativa anche in mancanza di determinazione della sede permanente, si giustifica in considerazione del fatto che l’esperibilità da parte dei privati dei mezzi giudiziari messi a loro disposizione dal Trattato potrebbe essere in concreto compromessa dalla difficoltà di raggiungere la sede della Corte per persone che risiedano a grande distanza da questa e che intendano valersi del ricorso diretto alla

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    Corte di cui si dirà qui a breve. Infatti la Comunità copre un’area di 1,85 milioni di chilometri quadrati e conta circa 120 milioni di abitanti con un prodotto interno lordo che si aggira intorno ai 41 miliardi di dollari5. La maggior parte della popolazione – com’è facile immaginare – versa però in condizioni disagiate per cui grandi distanze scoraggerebbero dall’intentare una causa dinanzi alla Corte e comunque aggiungerebbero costi ulteriori per l’attore6; ciò assume rilievo soprattutto in considerazione dell’estensione, da più parti reclamata, della competenza della Corte alla materia dei diritti umani. Pertanto, nonché evidentemente per la più generale esigenza di far sentire a quei popoli più vicina l’amministrazione della giustizia, si è preferito rimettere alla discrezionalità della Corte di derogare a quanto sarà stabilito dal Summit per la sede permanente della stessa. Sempre al fine di rendere il più possibile accessibile la giurisdizione della Corte, è stata altresì prevista, ai sensi dell’art. 8 delle Regole di procedura, la possibilità che per ordine del presidente della Corte sia disposta “from time to time” la collocazione di sottocancellerie quando la Corte svolga la sua attività in un luogo diverso dalla sede.

  2. Ai sensi dell’art. 27, par. 1, del Trattato, la Corte ha la funzione principale di risolvere le questioni interpretative e applicative che sorgano dal Trattato stesso7. La giurisdizione conferita “initially” alla Corte è destinata a svilupparsi in fasi successive: l’art. 27, par. 2, prevede infatti che il Consiglio estenda le competenze della Corte tra l’altro al secondo grado di giudizio e alla materia dei diritti umani obbligandosi a tal fine gli Stati a concludere un protocollo che renda operative le deliberazioni del Consiglio8. Ricompare, dunque, la funzione propria della vecchia East African Court of Appeals, che negli anni successivi al fallimento della precedente esperienza integrativa nella regione è stata ereditata dalle corti d’appello che ogni Stato ha provveduto in tempi diversi ad istituire per conformare il proprio ordinamento al principio del doppio grado di giurisdizione.

    Da una parte vi è l’esigenza per gli Stati di procedere nella cooperazione a livello subregionale, dall’altra quella di continuare a riservarsi la funzione sovrana dello ius dicere all’interno dei propri territori. È vero che la situazione politica all’interno degli Stati è cambiata dai tempi della vecchia Comunità, quando nei territori delle excolonie si erano instaurati regimi assolutistici che sistematicamente commettevano gravi violazioni dei diritti umani fondamentali per contrastare il dissenso politico: a quei tempi, infatti, sarebbe stata di certo

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    sgradita agli organi al potere l’idea di una corte sovraordinata allo Stato che indagasse su quei misfatti e accertasse eventuali responsabilità. Si avverte però tuttora la resistenza a cedere le prerogative nazionali in Paesi che non spiccano comunque per il rispetto dei diritti umani e, a voler contemperare le spinte nazionalistiche con i vantaggi dell’integrazione a livello subregionale, in dottrina si propone di limitare la giurisdizione d’appello della Corte a determinate categorie di controversie: se, ad esempio, fosse convenuto di far rientrare le controversie in materia commerciale nell’ambito della giurisdizione d’appello della Corte, ciò accrescerebbe senz’altro la fiducia degli investitori nella regione9.

    Le considerazioni innanzi fatte valgono anche e soprattutto per l’estensione della giurisdizione della Corte alla materia dei diritti umani, la cui tutela rientra nei principii fondamentali della Comunità ai sensi dell’art. 6, lett. d), del Trattato10. Anche le carte costituzionali degli Stati membri EAC – come avviene per la maggior parte degli ordinamenti interni – enunciano principii in materia di diritti umani e, quindi, si pone il problema di quale sia la relazione tra le giurisdizioni nazionali e la Corte per quanto riguarda sia la funzione di giudice d’appello di quest’ultima sia la materia dei diritti umani. Non sembra che l’eventuale estensione alla materia dei diritti umani sarebbe volta a sottrarre la relativa giurisdizione agli organi nazionali né che il ricorso alla Corte in funzione di giudice d’appello sia da intendersi come mezzo per impugnare decisioni emesse in unico grado all’interno degli Stati membri (e comunque – è presumibile pensare – non in qualunque materia verta l’oggetto della controversia). In via di principio, infatti, il diritto internazionale, come il diritto in genere, deve essere amministrato innanzitutto dai giudici interni, i quali hanno la responsabilità principale sia del rispetto dei diritti umani entro i territori cui si estende la sovranità statale punendone la violazione sia dell’adempimento degli obblighi pattiziamente assunti dallo Stato sul piano internazionale. Pertanto, la relazione tra le giurisdizioni nazionali e la Corte, quando si sarà proceduto all’estensione della giurisdizione ai sensi dell’art. 27, par. 2, del Trattato, andrà invece intesa nel senso che condizione di ammissibilità del ricorso alla Corte da parte dell’individuo (persona fisica o giuridica) sia avere previamente esaurito i mezzi di ricorso interni, purchè adeguati ed effettivi, messi a disposizione dagli ordinamenti interni, regola agevolmente mutuabile dall’esperienza in ambito europeo della Convenzione di Roma del 1950 (art. 35, par. 1)11.

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    Dato che l’estensione della giurisdizione della Corte viene rimessa al Consiglio, cui spetta decidere anche quando procedervi, le competenze della Corte inevitabilmente dipenderanno da considerazioni d’ordine politico in quanto politica è la natura del Consiglio: il Consiglio, ai sensi dell’art. 13 del Trattato, ha composizione ministeriale12 ed è verosimile anche...

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