Gli equilibri politici interistituzionali dopo la riforma di Lisbona

AuthorEnnio Triggiani
Pages9-33

    Il presente scritto riproduce quasi integralmente la relazione svolta nel corso del Convegno "Il trattato di Lisbona tra conferme e novità", Università degli studi di Messina, 26 e 27 giugno 2009. Esso è stato condotto nell'ambito del progetto di ricerca nazionale PRIN 2007 "Cittadinanza europea e diritti fondamentali nell'attuale fase del processo di integrazione". Responsabile nazionale, prof. Ennio Triggiani (prot. 2007ETKBLF).

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@1. La riforma istituzionale nell'ottica della democrazia rappresentativa e partecipativa.

1. L'ennesima e necessaria revisione del Trattato di Roma del 1957, avutasi a Lisbona nel 2007, è soprattutto legata alla indilazionabile esigenza di operare profondi cambiamenti nell'assetto istituzionale del processo d'integrazione e nei relativi equilibri politici1. Non a caso già il fallimento della Consiglio europeo

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di Nizza nel 2000, con le conseguenti e giustificate polemiche, aveva prodotto una significativa spinta in tale direzione concretizzatasi con la Dichiarazione di Laeken (2001), la Convenzione sul futuro dell'Europa (2002-2003) ed il c.d. Trattato costituzionale di Roma (2004). È peraltro indubbio che il venir meno di quest'ultimo ed un montante disinteresse verso l'integrazione, accentuato dallo scarso europeismo di alcuni dei nuovi Paesi membri dell'Europa orientale, hanno fatto progressivamente esaurire tale spinta tanto da mettere seriamente in pericolo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, pur corretto qua e là rispetto a quello di Roma del 2004 a tutela delle sovranità nazionali.

D'altronde, le modifiche istituzionali non possono che essere lo specchio dell'evoluzione politica del processo di integrazione. L'altalena fra passi avanti e ritardi costituisce lo sviluppo naturale della "sterzata politica", registrata dall'Unione europea nel 1992 con il Trattato di Maastricht la cui nota "triade" (moneta, cittadinanza e difesa) ha fatto entrare l'Europa in una fase qualitativamente differente rispetto al periodo della formazione del mercato unico. Ad essa si sono poi aggiunte, dopo l'11 settembre 2001, le due aree altrettanto, se non

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maggiormente "sensibili", della sicurezza interna e della lotta al terrorismo2. E tuttavia la necessaria politicizzazione dell'Europa è rimasta ancorata ad istituzioni nate in funzione della logica prevalentemente economica del mercato comune; in altri termini, gli Stati membri hanno continuato ad affrontare problematiche nuove con strumenti spesso vecchi e quindi parzialmente inadeguati a rispondere con efficacia alle complesse domande poste dalla società contemporanea. Il solido legame economico costruito attraverso le Comunità europee sulle fondamenta del circuito intergovernativo è rimasto per troppo tempo privo della diretta legittimazione democratica dei cittadini.

La contraddizione di agire con strumenti insufficienti in quanto inadeguati non è quindi stata superata proprio per l'assenza di una spinta popolare costruita sull'effettivo interesse dei cittadini per la vita dell'Unione, rendendo così evanescente un effettivo controllo democratico destinato, inevitabilmente, ad attenuarsi progressivamente. Al di là delle responsabilità imputabili alle stesse istituzioni comunitarie, è plausibile che l'abitudine ad eleggere "direttamente" i propri rappresentanti governativi a livello locale, regionale e nazionale ma non a livello europeo abbia progressivamente allontanato noi tutti da istituzioni sentite da un lato inutilmente invasive e poco influenti sulle scelte strategiche di sviluppo, dall'altro difficilmente controllabili e poco trasparenti.

Del resto, la complessa e di seguito descritta articolazione dei poteri fra Commissione, Consiglio, Consiglio europeo e Parlamento europeo rendono ardua la stessa individuazione delle precise responsabilità di scelte o inadempienze; ed i numerosi passi indietro effettuati dal Trattato di Lisbona rispetto a quello di Roma del 2004 in materia di semplificazione non consentono di migliorare il quadro appena descritto.

L'ultima sessione elettorale del Parlamento europeo ha quindi non casualmente evidenziato uno dei momenti più difficili del processo di integrazione, fra disattenzioni, disaffezioni e rinascite di decrepiti nazionalismi. Purtroppo il sogno europeo non affascina più e le spinte ideali promosse da grandi statisti nel secondo dopoguerra si sono ampiamente esaurite. L'Unione appare come un utile strumento di integrazione economica fra Stati indipendenti al quale pagare qualcosa nei termini dell'attribuzione di poteri sovrani, peraltro solo "prestati" sul presupposto di conservarne ben stretta la titolarità. Significativa, in tal senso, è non solo la formale previsione, nell'art. 50 del Nuovo Trattato dell'Unione europea (d'ora in poi NTUE), della possibilità di recesso dall'Unione (peraltro implicitamente consentita dal vecchio sistema), ma addirittura la riduzione delle competenze attribuite all'Unione mettendo per la prima volta in discussione l'acquis comunitario in una sorta di "cooperazione indebolita" se limitata ad alcuni Stati membri (art. 48, par. 2 NTUE)3.

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Un così basso Europe appeal, nella sua drammatica pericolosità, evidenzia la scarsissima levatura politica di molti governanti che, sulla contingente necessità di mantenere un facile consenso elettorale, cavalcano sentimenti retrivi di vetero-nazionalismo se non di vero e proprio razzismo, classici rifugi istintivi in momenti di crisi economica e scarse risorse.

La miopia di un simile approccio è foriera di gravissime conseguenze in quanto rende ancora più debole la risposta all'oggettiva fine dell'egemonia globale del mondo occidentale, rispetto alla quale l'unica alternativa è l'innovazione a partire da quella istituzionale-politica. Ha quindi dell'incredibile la tendenza al gambero di un'Europa che si era invece mossa per tempo in quella direzione inventando l'unico modello possibile quale risposta efficace ai complessi problemi del terzo millennio, e cioè l'integrazione sovranazionale, suscitando in tutto il globo interesse ed anche invidia per tale sua capacità. Ebbene, proprio ora che i nodi vengono progressivamente al pettine, ora che diventa sempre più chiara la natura dei problemi sul tappeto (ambiente, povertà, malattie, risorse idriche ed energetiche, criminalità, terrorismo ...) - la cui gravità ed ampiezza rendono impensabili risposte nazionali - pensiamo di riporre in qualche polveroso scaffale decenni di progettualità innovativa e rivoluzionaria per seguire interessi di piccola bottega (con tutto il rispetto per quelle, gloriose ed artigianali, del tempo che fu).

In realtà l'Europa, dopo l'ultimo innegabile successo dato dall'introduzione dell'euro con cui anche sul piano monetario ha cominciato ad esprimersi da protagonista sulla scena mondiale, si è come ripiegata su se stessa pur ampliando la propria composizione (ma in parte forse anche per questo). Sia la guerra irachena sia la crisi economica hanno fatto emergere la diversità dei contingenti interessi fra gli Stati membri senza che né una leadership autorevole, né una comune visione strategica fossero in grado di ridare corpo all'Unione.

Certo, non mancano responsabilità diffuse dell'attuale situazione. Le istituzioni europee si sono dimostrate inadeguate a governare gli enormi flussi di immigrati e di merci attivati da un assetto economico globale caratterizzato da regole insufficienti e dall'accentuarsi della distribuzione ineguale della ricchezza. E proprio il "marchio di fabbrica" comunitario del mercato unico ne ha pagato le conseguenze attraverso una lettura certo superficiale ed errata ma produttiva, in un contesto di recessione e disoccupazione, di paura e di istintive richieste di ritorno al protezionismo.

In particolare, la Commissione ha per di più mostrato eccessiva accondiscendenza nei confronti di governi presuntuosi quanto inadeguati e non ha saputo efficacemente riformulare le ragioni della necessità dell'Unione. Si è così involontariamente suscitata nei cittadini un'idea d'Europa senza afflati ed ideali, ma progressivamente rivolta su se stessa nella, a volte esasperata, regolamentazione di profili puramente tecnici.

L'entrata in vigore del Trattato di Lisbona merita pertanto una festa, ma senza fuochi d'artificio. Di fronte alle numerose e positive novità introdotte, per quanto qualitativamente inferiori rispetto a quelle previste nel c.d. Trattato costituzionale di Roma, la riforma di Lisbona evita al momento di sciogliere il vero

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nodo dell'attuale impasse del processo di integrazione quale è data dall'impossibilità per gli Stati membri di camminare tutti alla stessa velocità. Non è pensabile che, ricordando il referendum irlandese del 2008, meno dell'1% della popolazione dell'Unione possa bloccare un processo di riforma frutto di anni di lavoro e di ampia partecipazione; così come è incredibile possa succedere che l'entrata in vigore del nuovo Trattato sia dipesa, fino all'ultimo, dalla volontà (singola o singolare) di due capi di Stato (polacco e ceco), i quali si rifiutavano di ratificare quanto deciso dai rispettivi parlamenti.

Resta quindi sempre più attuale il nodo dell'impossibilità che ogni passo avanti nell'integrazione debba fare i conti con il veto, probabile, di uno qualsiasi dei sempre più numerosi Stati membri. D'altro canto, l'ulteriore ampliamento ai Paesi balcanici è necessario proprio per tenere saldo il timone nella rotta per la quale è nata la nuova Europa e cioè il perseguimento della pace e del rispetto dei diritti fondamentali. La garanzia che tali valori diventino stabile patrimonio di quei Paesi non può che essere data dalla loro progressiva adesione all'Unione; ma è impensabile, per varie e comprensibili ragioni, che essi possano essere già pronti a sposare soluzioni di carattere sovranazionale altrove maturate, e si spera non dissolte, in molti decenni. Eppure a tutti dovrebbe essere ben presente che, al momento di firma e ratifica, ogni Stato...

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