Espulsione di minori stranieri non accompagnati e Convenzione europea dei diritti dell'uomo*

AuthorGiovanni Cellamare
PositionOrdinario di Diritto internazionale nell'Università degli studi di Bari
Pages181-199

Il presente studio è stato condotto nell'ambito del progetto di ricerca nazionale PRIN 2007 "Cittadinanza europea e diritti fondamentali nell'attuale fase del processo di integrazione". Responsabile nazionale, prof. Ennio Triggiani (prot. 2007ETKBLF).

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1. Come è noto, dal sistema della CEDU emerge che sono poche le norme in materia di espulsione; siffatta circostanza non ha impedito la formazione di un'abbondante giurisprudenza degli organi di garanzia della Convenzione da cui risulta una violazione indiretta, per effetto di un provvedimento di espulsione, di norme diverse dalle prime1.

Indicazioni di contenuto analogo si ricavano dalla lettura del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966 e dalla giurisprudenza, in senso lato, del Comitato dei diritti dell'uomo2.

In altri termini, le norme più frequentemente invocate davanti agli organi di garanzia della Convenzione e del Patto in parola presentano una relazione solo indiretta con l'espulsione degli stranieri: si tratta soprattutto delle disposizioni Page 182 che prevedono il divieto di tortura, di pene o trattamenti disumani e degradanti, nonché di quelle poste a tutela della vita privata e familiare3.

In proposito va ricordato anzitutto che l'imputabilità agli Stati della violazione, in particolare, delle norme che prevedono il divieto indicato, per effetto dell'espulsione, va intesa alla luce dei chiarimenti forniti da quegli organi circa la portata delle disposizioni (articoli 1 della Convenzione e 2, par. 1, del Patto) che prevedono l'obbligo delle Parti contraenti di riconoscere a tutte le persone "sottoposte alla loro giurisdizione" i diritti e le libertà enunciate nell'atto di cui si tratta.

Limitandoci alle indicazioni della Corte europea dei diritti dell'uomo, questa ha messo sullo stesso piano estradizione ed espulsione e ha precisato che, sebbene eccezionalmente, "acts of the Contracting States performed or producing effects, outside their territories constitute an exercise of jurisdiction by them (...). Reference has been made in the Court's case law, as an example of jurisdiction 'not restricted to the national territory' of the respondent State (...) to situations where the extradition or expulsion of a person by a Contracting State may give rise to an issue under Article 2 and/or 3 (or exceptionally, under Article 5 and 6) and hence engage the responsibility of the State under the Convention (...). However the Court notes that liability is incurred in such cases Page 183 by an action of the respondent state concerning a person while he or she is on its territory, clearly within its jurisdiction, and that such cases do not concern the actual exercise of a State's competence or jurisdiction abroad"4.

Trattandosi dell'applicazione dell'art. 3 a misure statali di espulsione, gli organi di garanzia della Convenzione europea hanno mosso costantemente dall'affermazione del diritto sovrano degli Stati contraenti di controllare l'immigrazione, materia non "espressamente prevista dalla Convenzione". Peraltro - si legge nella giurisprudenza pertinente - quegli stessi Stati "hanno accettato di restringere i poteri che ad essi derivano dal diritto internazionale generale ivi compreso quello di controllare l'ingresso e l'uscita degli stranieri, nella misura e nei limiti degli obblighi" da essi assunti in quanto parti della Convenzione: ora, "l'espulsione [o l'estradizione] di un individuo in alcuni casi eccezionali può rivelarsi contraria" all'art. 3", ove sussistano "serie ragioni di credere che la persona espulsa o [estradata] possa essere sottoposta nello Stato di destinazione ai trattamenti proibiti da quell'articolo"5, con la conseguente responsabilità dello Stato in causa per violazione della Convenzione ("au titre de la Convention")6. Page 184

Nell'approccio interpretativo riferito, il riconoscimento della possibilità di una violazione dell'art. 3, per effetto dell'espulsione, è accompagnato dall'affermazione del carattere assoluto del diritto previsto da quella norma, come risulta dalla sua formulazione incondizionata: la stessa - ha precisato la Corte - reca un valore fondamentale delle società democratiche7; uno dei valori parte del "patrimonio comune di tradizioni e ideali politici, di rispetto delle libertà e di preminenza del diritto", di cui si fa menzione nel Preambolo della Convenzione8. La violazione dell'art. 3, dunque, integra un comportamento incompatibile con quel patrimonio.

2. Come accennato, limiti all'operare dell'espulsione possono derivare anche dall'applicazione dell'art. 8 della CEDU (e dell'art. 17 del Patto), a garanzia del diritto individuale al rispetto della vita privata e familiare previsto da detta Page 185 norma9. Il diritto in parola, a differenza di quello considerato nel paragrafo che precede, non presenta il carattere dell'assolutezza, potendo subire limitazioni per effetto di misure previste dalla legge e che siano necessarie in una società demo- cratica per la "sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, il benessere economico del Paese, la difesa dell'ordine, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà" (art. 8, par. 2)10. D'altro canto, diversamente dall'art. 3, l'art. 8 può costituire oggetto di deroga ai sensi dell'art. 15 della Convenzione (e dell'art. 4 del Patto).

Trattandosi di un diritto privo del carattere indicato, la sua protezione è suscettibile di equo bilanciamento, per quanto qui interessa, con gli interessi statali ad adottare provvedimenti di espulsione ritenuti necessari in una società democratica nell'esercizio del diritto degli Stati contraenti di controllare l'ingresso, il soggiorno e l'allontanamento degli stranieri11. Nella giurisprudenza della Corte europea, l'accertamento del bilanciamento in parola ("fair balance between the rilevant interests"12), si risolve nell'esaminare se le misure che interferiscono nella vita privata o familiare siano giustificate da un imperioso bisogno sociale e, in particolare, siano proporzionate allo scopo legittimo che con le stesse si intenda perseguire ("a pressing social need, and, in particular, proportionate to the legitimate aim pursued"13).

Da quella stessa giurisprudenza risulta altresì che la Corte rileva e prende in considerazione distintamente o, viste le caratteristiche del caso di specie, congiuntamente Page 186 l'esistenza della vita privata e familiare della persona interessata alla misura di espulsione14.

Il quadro giurisprudenziale sinteticamente riferito appare arricchito dalle indicazioni della Corte circa l'applicabilità degli articoli 3 e 8 in materia di espulsione di minori stranieri non accompagnati e, rispettivamente, di detenzione degli stessi. Tali indicazioni sono contenute nella sentenza del 12 ottobre 2006 relativa all'affare Mubilanzila Mayeka e Kaniki Mitunga c. Belgio. Vale la pena di soffermarsi brevemente su detta sentenza, la cui importanza - ci sembra - è accresciuta dall'assenza nella Convenzione di norme che prevedano una tutela rafforzata dei bambini in considerazione del loro status minorile15. La qual cosa, beninteso, non ha impedito agli organi di garanzia della Convenzione di tener conto in alcuni casi di quella condizione16.

3. L'affare prende origine dall'arrivo in Belgio di una bambina congolese dell'età di cinque anni, condotta in quello Stato da uno zio residente in Olanda per facilitarne il ricongiungimento con la madre, in attesa a sua volta del riconoscimento dello status di rifugiata in Canada. Giacché sfornita dei documenti di ingresso e di soggiorno, alcuni giorni dopo l'arrivo in Belgio, la minore era posta in detenzione in un centro di transito per adulti, in vista del suo refoulement deciso dalle competenti autorità belghe17. A seguito della partenza dello zio per l'Olanda, l'avvocato nominato da quelle autorità per assistere la minore aveva richiesto, in nome di questa, il riconoscimento della qualità di rifugiata. Respinta tale domanda e constatato il rifiuto dei competenti organi olandesi di prendere in carico la bambina in base alla Convenzione di Dublino del 15 giugno 1990 Page 187

(sulla determinazione dello Stato competente per l'esame di una domanda d'asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee18), la minore era refoulée, viaggiando con alcuni adulti espulsi verso il Congo, dove peraltro nessun parente l'attendeva. Tale refoulement seguiva da vicino la decisione con la quale il tribunale competente di Bruxelles aveva ordinato la messa in libertà della bambina, contrastando la detenzione con gli interessi superiori della stessa garantiti dall'art. 3 della citata Convenzione sui diritti del fanciullo. Inoltre, quel refoulement scartava la richiesta del rappresentante dell'Alto commissariato dei rifugiati: accertata l'assenza in Congo di persone adulte capaci di aver cura della bambina, il medesimo aveva sollecitato la concessione di un permesso temporaneo di soggiorno, in attesa del visto di ingresso della minore in Canada.

Successivamente al riconoscimento dello status di rifugiata della madre, la bambina è stata trasferita in Canada a spese delle governo belga, così consentendo il ricongiungimento familiare. Ciò grazie all'intervento diretto dei primi ministri del Belgio e del Canada.

In considerazione dei fatti esposti, la madre e la figlia si sono rivolte alla Corte sostenendo che la detenzione della seconda nel centro di transito destinato all'espulsione di adulti in condizione irregolare e il refoulement, senza accompagnamento e accoglienza all'arrivo, avevano causato la violazione dell'art. 3 della Convenzione; e che la misura detentiva - in quanto sproporzionata rispetto allo scopo (di controllo) che le autorità belghe intendevano raggiungere con la medesima - aveva realizzato una violazione dei diritti alla non ingerenza nella vita familiare e privata ex art. 8, nonché delle finalità previste dall'art. 5, par. 1, lett. d) a favore dei minori19.

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