L’Europa tra realtà effettuale, volontà popolare e opzioni politiche

AuthorMario Sarcinelli
PositionEconomista e presidente Crediop
Pages495-512

    Il presente scritto è aggiornato ai primi di novembre 2008. Ringrazio Mauro Marè, Giuseppe Mascetti, Alessandro Roncaglia e Gian Luigi Tosato per la lettura di precedenti versioni di questo scritto e per le preziose osservazioni; resto ovviamente l’unico responsabile di errori, omissioni e opinioni.

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L’Europa non si farà di colpo, né in una costruzione d’insieme: essa si farà attraverso realizzazioni concrete, creando dapprima una solidarietà di fatto.

Robert Schuman

(Déclaration du 9 mai 1950 Salon de l’Horloge du Quai d’Orsay, Parigi)

@1. La realtà effettuale: il difficile cammino istituzionale nel XXI secolo

1. È inutile negare o cercare attenuanti. L’idea di un continente riconciliato con se stesso, libero finalmente da guerre fratricide, proiettato a sviluppare unitariamente un ruolo nel contesto delle grandi nazioni del mondo sembra avere esaurito la sua forza propulsiva. Quell’idea era stata il sogno della mia gioventù e la costruzione cui avevo dedicato, in qualità di pubblico funzionario, una non piccola parte delle mie energie professionali negli anni ’80. Come mai l’idea ha perduto capacità di ispirazione e il sogno ha rischiato di dissolversi nel corrusco risveglio di antichi, ricorrenti conflitti?

È molto difficile fare un’analisi esaustiva, soprattutto bilanciata, delle cause che hanno condotto all’attuale, lamentevole situazione. Non essendo uno storico, né essendo trascorso tempo sufficiente per permettere una visione distaccata degli avvenimenti che stiamo vivendo e che spesso ci feriscono, mi siaPage 496 concesso di accennare a quelle circostanze che, a mio avviso, ci hanno condotto al presente stallo, senza attribuire ad esse un peso o una priorità.

È bene iniziare col radicale mutamento dello scenario geopolitico determinato dalla caduta del muro di Berlino, dalla dissoluzione dapprima dell’impero esterno dell’URSS (i Paesi satelliti) e poi anche di quello interno (le quindici repubbliche che la componevano), dal riaprirsi di antiche controversie etniche, religiose e territoriali, ieri nei Balcani e oggi nel Caucaso. L’Europa, intenta a costruire se stessa attraverso un fortunato dosaggio di allargamento (dapprima a Danimarca, Irlanda e Regno Unito, quindi a Grecia, Spagna e Portogallo) e approfondimento (mercato unico e moneta unica sotto la sapiente regia di Delors), si è trovata a fronteggiare improvvisamente una situazione del tutto nuova, soprattutto inattesa. Dinanzi alla domanda di un ancoraggio europeo da parte dei Paesi liberatisi dal giogo sovietico e dinanzi alle insistenze americane di approfittare della nuova situazione per estendere l’Occidente – non solo attraverso la NATO – sino alle frontiere della Russia o quasi, l’Unione europea ha deciso di dedicarsi all’allargamento e di gestire l’esistente, in termini di politica agricola comune, mercato unico, implementazione dei pilastri di Maastricht, ecc.

L’Unione fu dapprima ampliata da dodici a quindici membri con l’ammissione di Paesi da tempo in attesa come Austria, Finlandia e Svezia, sebbene almeno quest’ultima non fosse completamente convinta dell’approdo europeo. Il successivo salto è stato da quindici a venticinque nel 2005 e a ventisette due anni dopo. Se si escludono le isole mediterranee di Cipro e di Malta, tutti gli altri Stati ammessi sono Paesi dell’Europa centrale e orientale che avrebbero dovuto accedere all’Unione gradualmente in funzione dell’avvicinamento all’economia di mercato, della maturità democratica e della capacità di assorbire e tenere fede alla legislazione comunitaria. Prevalse il criterio politico di non fare distinzioni tra l’uno e l’altro Paese, anche perché ciascuno di essi poteva vantare l’appoggio di questo o quel membro dell’Unione; solo per la Bulgaria e per la Romania si decise di allungare il purgatorio di due anni. A mio avviso, il passaggio dal principio meritocratico a quello politico nell’ammissione fu un grave errore, poiché nessuna istituzione, nessun corpo collegiale può essere inflazionato di colpo senza gravi ripercussioni sui suoi modi e ritmi di funzionamento.

L’allargamento trovò i meccanismi decisionali dell’Unione particolarmente elaborati, talvolta addirittura bizantini, sempre lenti come accade nelle istituzioni cui partecipano Stati sovrani, sostanzialmente fermi al modello consacrato dai sei Stati fondatori nel Trattato di Roma. Attenzione, riflessione e un intenso lavorio diplomatico vennero riservati all’argomento, ma i risultati ottenuti col Trattato di Nizza furono di gran lunga inferiori alle attese, ad applicazione differita, difficilmente in grado di migliorare i meccanismi istituzionali. Sebbene non fossero ancora membri di diritto dell’Unione, i Paesi allora di prossima adesione furono ammessi ai negoziati e non contribuirono affatto a rendere le soluzioni più agevoli e più conformi agli interessi di lungo periodo dell’Unione.

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Inoltre, nonostante le solenni affermazioni in favore di un’Unione più stretta, solo gli obiettivi di alcuni Paesi, tra cui l’Italia, erano e sono abbastanza vicini a un’evoluzione di tipo federalista, mentre quelli di altri, ad esempio il Regno Unito, si identificano con l’Unione come mercato unico o grande spazio in cui gli agenti economici sono liberi di operare senza o con scarso intervento da parte dei pubblici poteri, ivi incluso quello comunitario. Questa seconda tendenza, emersa con il primo allargamento da sei a nove membri, si è successivamente rafforzata, soprattutto quando da quindici si è passati a venticinque. Non va dimenticato che Paesi come la Polonia e la Repubblica Ceca, che hanno a lungo risentito l’egemonia e subito l’interventismo sovietico, sono alquanto allergici a vedere consolidarsi un potere sopranazionale, anche se quest’ultimo ha basi democratiche e radici nella libera volontà del Paese aderente. D’altra parte, l’ingresso nell’Unione europea (e nella NATO) era ricercato dai Paesi dell’Europa centrale e orientale per assicurarsi una copertura politica e geostrategica per il distacco dall’orbita russa, oltre a sostanziosi trasferimenti, in parte come riparazione dei mancati o rinunciati aiuti del Piano Marshall alla fine del secondo conflitto mondiale.

Ben presto si riconobbe che il Trattato di Nizza era insufficiente e si pensò di elaborare, attraverso una convenzione i cui membri vennero designati non solo dal potere esecutivo ma anche da quello legislativo sia degli Stati membri sia dell’Unione, un trattato sostitutivo di tutti gli strumenti precedenti e con l’ambizione di creare la carta costituzionale dell’Unione, un errore secondo alcuni studiosi1. Il ricorso alla convenzione era stato sperimentato di già con la Carta dei diritti fondamentali, che però non divenne obbligatoria col Trattato di Nizza per l’opposizione di Paesi, tra cui la Francia, i cui inviati l’avevano tuttavia approvata. Anche per il Trattato costituzionale la convenzione non si rivelò un metodo fortunato: produsse un testo di oltre cinquecento articoli, di non facile lettura e comprensione, dei quali solo quelli contenuti nei due primi capitoli avevano sostanza e sapore costituzionale. Nonostante l’approvazione quasi all’unanimità da parte dei 105 costituenti e la solenne parafazione a Roma da parte di tutti gli Stati partecipanti per sottolineare la continuità con l’iniziale accordo del 1957, il nuovo Trattato si arenò ben presto contro il negativo responso popolare di Francia e Paesi Bassi, sebbene esso fosse stato approvato dai rispettivi parlamenti e sostenuto dai loro governi. Il no di due Paesi fondatori della Comunità, divenuta Unione dopo Maastricht, indusse a molte analisi sulla disaffezione dei cittadini, sul burocratismo di Bruxelles, sulla scarsa capacità di convinzione dei politici nelle materie riguardanti l’Europa, sulla difficoltà di “vendere” all’opinione pubblica un testo di inusitata lunghezza e complessità, su altri aspetti ancora.

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@2. La volontà popolare: come tenerne conto?

2. A mio avviso, è nello strumento del referendum per l’avanzamento dell’Europa un gravissimo errore. So bene che questa mia critica può valermi la censura di essere antidemocratico, ma è meglio essere scomunicato per avere espresso liberamente la propria opinione, piuttosto che continuare a manifestare ossequio a una “vacca sacra”. Gli strumenti della democrazia diretta non sono affatto facili da maneggiare e comunque sono storicamente un meccanismo che finisce col premiare lo status quo; si pensi alla Svizzera dove il ricorso al referendum non permette alle autorità di introdurre innovazioni o di far entrare il Paese in organizzazioni internazionali. Se esso è giustificato in un Paese aduso alla democrazia diretta e su tematiche molto spesso di concreta rilevanza per l’elettorato, mal si adatta in contesti dove prevalgono i meccanismi della democrazia rappresentativa e su tematiche complesse in cui il calcolo dei costi e dei benefici porta a percepire i primi come gravi e sicuri e a scontare i secondi come lievi e aleatori, comunque, a far propendere per il quieta non movere.

Non va dimenticato che il Trattato di Maastricht che assicurò all’Unione uno dei maggiori frutti, l’euro, fu approvato dal 51,04 % dei francesi che votarono (le petit oui…), nonostante che la moneta unica fosse stata una felice intuizione di Jean Monnet e che il Presidente Mitterrand fosse ad essa pienamente favorevole. Il popolo della Danimarca per ben due volte si pronunciò contro l’adesione al Trattato di Maastricht, per il timore che quest’ultimo ponesse a rischio il suo sistema di sicurezza sociale; fu necessario rinegoziare il Trattato e concedere alla Danimarca una clausola di opting out dall’unione monetaria. Per salvaguardare l’elevata integrazione commerciale ed economica con la Germania si dovette rapidamente concludere un accordo per limitare l’oscillazione del tasso di cambio tra l’euro e la corona al 2,25%2. Né fu indenne da bocciature il Trattato di Nizza, respinto dall’Irlanda timorosa di vedere compromessa...

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