Limiti e potenzialità dell'esperienza dell'UNRRA nella prospettiva di Lodovico Montini

AuthorLuca Barbaini
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@1. Una pagina ancora da scrivere

“In un tempo che ormai si allontana, nell’inverno fra il 1944 e il 1945, venne chiesto ad un padre di famiglia se avesse voluto occuparsi di certi aiuti; [egli accettò] perché questo uomo soffriva di essere stato violentemente distaccato dalla casa e dai figli al nord, senza notizie da lunghi mesi ed avrebbe così potuto sollevare il proprio spirito, quasi ricongiungendolo ai suoi cari, organizzando quegli aiuti che stavano per arrivare dall’America”. Era la prima notizia dell’UNRRA1. Con queste parole nel 1952 l’allora deputato democristiano Lodovico Montini2 sceglieva di descrivere la breve

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ma intensa esperienza che, fra la fine del 1944 e la primavera del 1947, aveva vissuto come Presidente della Delegazione del Governo italiano presso l’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration)3.

Nel filone di ricerche dedicate al periodo della ricostruzione l’esperimento italiano dell’UNRRA è stato oramai completamente chiarito nelle sue fasi fondamentale4, anche se, fino ad ora, l’esperienza che da essa maturò il cattolico Lodovico Montini è restata

L’archivio privato di Lodovico Montini è conservato a Brescia presso l’Istituto Paolo VI (d’ora in poi APLM).

4 In particolare Agostino Giovagnoli e più recentemente Andrea Ciampani hanno ricostruito la vicenda dell’UNRRA nelle sue fasi fondamentali. Ad esempio Giovagnoli, nel suo saggio del 1978 basato quasi esclusivamente su materiale inedito relativo al fondo della “Segreteria De Gasperi”, conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato, ha proposto un’interessante disamina sulle scelte del leader trentino agli albori della Guerra Fredda, mostrando, nella linea storiografica del suo maestro Pietro Scoppola, come in quella vicenda De Gasperi si sarebbe ritagliato un ruolo di primo piano, “salvando” la svolta democratica italiana. A. Giovagnoli, La Pontificia Commissione Assistenza Profughi, in «Storia Contemporanea», n. VVI, 1978, pp. 1081-1111; A. Ciampani (a cura di), L’Amministrazione per gli Aiuti Internazionali, Milano, Franco Angeli, 2002. All’interno del volume in particolare: L. Rossi, L’UNRRA strumento di politica estera agli albori del bipolarismo, pp. 47-84.

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piuttosto in ombra. Questa vicenda è però quanto mai interessante per far luce sulla successiva “scelta” europeista – sia pur reinterpretata in chiave sociale – di un personaggio come Montini. Il presente saggio si propone quindi di soffermarsi sulla sua riflessione di quegli anni impegnati nel progetto dell’UNRRA, nel quadro di un lento ma sicuro percorso di maturazione politica, intellettuale ed addirittura religiosa. È dunque utile fare, se pur brevemente, un passo indietro di qualche mese per rintracciare alcuni dei motivi che ne avrebbero guidato l’operato una volta giunto alla Presidenza della Delegazione del Governo italiano.

@2. La riflessione montiniana degli anni 1943-1946

Nel gennaio del 1943 un anonimo informatore di polizia riferiva del Convegno annuale del Movimento Laureati. Nella sala del Tronetto in Vaticano si erano riuniti i principali dirigenti dell’Azione Cattolica. Un clima di “trionfo imminente” – commentava il documento– sembrava serpeggiare nell’assemblea. La diagnosi offerta dallo sconosciuto informatore non pareva avere incertezze: lo scontento nel paese per una guerra ormai persa era evidente, il regime era ad un punto dal cadere e i cattolici erano ad un passo dal “prepararsi alla successione”, mentre l’osteggiata internazionale democristiana, che negli anni del fascismo aveva tanto fatto parlare di sé, era sul punto di cogliere il frutto del proprio successo.

L’immagine con cui si descriveva il mondo cattolico non poteva essere più grossolana, intrisa com’era da un misto di faciloneria e pregiudizio. In particolare alle spie del regime morente sfuggiva quasi del tutto un approccio più dettagliato sulle differenti anime che durante il ventennio si erano fronteggiate nella Chiesa italiana. La sensibilità che molti dei credenti avevano maturato sul problema internazionale era poi completamente sottovalutata. L’episodio, rievocato da Renato Moro5, è quanto mai significativo per far luce sulla riflessione elaborata da Lodovico Montini sui temi sociali ed internazionali. Conviene quindi fare, se pur brevemente, un

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passo indietro di qualche mese per ricostruire il percorso intellettuale, religioso e politico che lo avrebbe condotto ad occuparsi dei primi aiuti internazionali.

Verso la fine del 1942 Montini pubblicava un breve ma intenso saggio dal titolo I Papi e la vita sociale moderna6, in cui si soffermava con particolare attenzione sui primi atti di papa Eugenio Pacelli, partendo da un’attenta analisi sulle cause del conflitto e sul ruolo che i cattolici sarebbero stati chiamati ad esercitare nel prossimo dopoguerra. Secondo Montini i tempi sembravano affidare alla Chiesa cattolica una “missione ricostruttiva della socialità” contemporanea, mentre i dolorosi “travagli” della guerra in un certo senso sarebbero stati destinati a dar vita “ad una nuova unità e ad un nuovo ordine”. Come noto il pontefice nel radiomessaggio del Natale 19427 aveva parlato dell’esigenza di un “ordine nuovo” per la società postbellica; si sarebbe trattato di “stabilire un ordine di convivenza e di collaborazione internazionale, conforme alle norme divine”, e i cattolici non avrebbero potuto farsi trovare impreparati come forse si erano mostrati alla fine della Grande Guerra8.

I primi atti del nuovo pontefice rivelavano dunque agli occhi del quarantasettenne Montini la fondatezza di molti degli asserti che, durante i difficili anni Trenta, avevano dominato la sua riflessione e quella dei laureati di ACI sul rapporto fra modernità e pensiero cattolico. Non molto tempo prima, nel 1937, gli intellettuali di Azione Cattolica e lo stesso Montini si erano trovati in netta minoranza di fronte all’orientamento saldamente filoconcordatario capeggiato da padre Gemelli e dai vertici dell’associazionismo ufficiale9; ora, però, le sfide che il dopoguerra prospettavano al mondo cattolico, sembravano aprire nuove prospettive di azione. Secondo Montini gli esiti di quel dibattito erano ormai chiari: se il giudizio su quanto fino ad allora era stato elaborato in Europa, a cominciare dal più classico liberalismo e dal comuni-6 L. Montini, I Papi e la vita sociale moderna, in M. Rimoldi, G. Canuti (a cura di), Il Papato, Roma, Quaderni SALES, 1943, pp. 41-47.

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smo, era netto e senza appello, il cattolicesimo avrebbe dovuto trovare nuovi modelli con cui confrontarsi e da cui prendere spunto.

Come per gran parte della futura classe dirigente cattolica, anche nell’itinerario formativo del giovane Lodovico Montini, gli anni Trenta furono una tappa decisiva. In quel periodo, di fronte al problema del corporativismo fascista10, era toccato proprio a lui dirigere la rubrica di scienze sociali di «Studium»11, la storica rivista del Movimento Laureati, muovendosi con abilità e pertinenza fra l’ala più fiancheggiatrice del regime, presente nella Chiesa italiana, e la severa condanna del corporativismo fascista da parte degli ex popolari. Nei suoi articoli Montini non aveva mancato di sottolineare come, solo proiettando il dibattito in corso in un ambito internazionale, i cattolici avrebbero potuto aspirare ad evitare il fatale abbraccio con il regime. Da allora la disamina montiniana si era venuta strutturando per la sua valenza prettamente sistemica, descrivendo un altro modello di società, completamente diverso, se non alternativo, a quello italiano, partendo dall’esempio della Chiesa francese, ormai avvezza alla democrazia, per giungere al grande modello statunitense e al ruolo svolto dai cattolici nell’esperimento del new deal12.

Il fatto non è da sottovalutare se si considerano gli scritti di metà anni Trenta di personaggi come John Ryan13. Dalla lettura di questa fonte emergono numerose analogie culturali e fin anche teologiche, fra gli intellettuali cattolici statunitensi degli anni Venti e Trenta e il pensiero montiniano. Come noto il cattolicesimo sociale americano, per la storica paura che da sempre lo attraversava per ogni possibile “svolta” in senso radicale, negli anni fra le due

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guerre si era assestato su posizioni estremamente progressiste in materia sociale e dottrinale. L’obbiettivo, in fondo, era di fare concorrenza sul loro stesso terreno alle dottrine socialiste, puntando a tradurre nella realtà americana l’insegnamento della Chiesa di Roma, con un ricorso al Magistero pontificio che negli anni si era fatto sempre più duttile e libero14. Gli stessi vescovi americani erano arrivati a giudicare gli asserti del Labour Party come “il programma più completo e coerente che sia apparso nella fase della ricostruzione industriale”, anche se inaccettabile perché “un programma di immediate riforme radicali che tende, come fine ultimo, al socialismo”15, mentre il sacerdote Ryan, di fronte alla grande crisi del ‘29, non avrebbe mancato di auspicare una “carità organizzata”16 strutturata con forme coordinate direttamente dallo Stato.

L’itinerario di Montini durante il ventennio era stato molto simile, passando dalla condanna dura e senza appello nei confronti del socialismo, ad una apertura sempre più motivata ad alcune delle tesi di tutte quelle culture estranee al cattolicesimo. In particolare nei suoi scritti era apparso evidente il tentativo di reinterpretare, sia pur con la dovuta reverenza, il Magistero cattolico. La Chiesa – scriveva nel 1929 istituendo un facile quanto scomodo confronto fra il mondo cattolico italiano e quello francese – avrebbe dovuto “portare al battesimo romano le realtà nuove”17, anziché giungere a frettolose condanne.

Egli giungeva quindi all’appuntamento del dopoguerra con una coscienza sociale e religiosa estremamente precisa che lo spingeva ad auspicare che i cattolici non avessero paura di fare i conti con una seria ed impegnativa esegesi della propria tradizione18,

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