Il rule of law, la democrazia e il diritto internazionale. A partire dall’esperienza degli Stati Uniti

AuthorGianluigi Palombella
PositionOrdinario di Filosofia del diritto nell’Università degli studi di Parma
Pages255-284

    La versione in lingua inglese di questo articolo sarà pubblicata su Ratio Juris, n. 4, 2007. Esso nasce a seguito di un dibattito con Neal Katyal, alla Georgetown University nel marzo 2007.

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@1. Premessa

1. La questione generale che fa da sfondo a questo saggio riguarda il rapporto che intercorre tra il “rule of law”, inteso dal punto di vista dell’ordinamento nazionale, e il rule of law, inteso dal punto di vista del diritto internazionale. Concezioni istituzionali diverse di tale rapporto conducono ad attitudini differenti nei confronti del sistema del diritto internazionale. Ma vi sono problemi che non sembrano poter ricevere più alcuna risposta nel quadro degli assunti centrali e più risalenti di alcuni Paesi occidentali, ispirato alla radicale separabilità tra il rule of law all’interno e il rule of law a livello internazionale. Eppure proprio dal persistente appello al rule of law e dalla fedeltà ad esso, sorge una domanda essenziale: se il nostro atteggiamento verso l’ordine normativo del diritto internazionale possa essere esente da un qualsiasi canone di coerenza con il rule of law1 che invochiamo per il nostro ordinamento interno.

È opportuno chiedersi se il rispetto del “rule of law” imponga allo stesso tempo anche di adottarne una concezione “unitaria”, oppure ci permetta di abbracciare standard diversi quando si tratti dell’ordine internazionale o sopranazionale. Una delle argomentazioni che si assume giustifichi la “separazione”Page 256 e il doppio standard è la democrazia. Tuttavia, non tutti gli ordinamenti costituzionali occidentali si richiamano alla “naturale” prevalenza della democrazia come “trump card” di fronte, per esempio, a norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, nonostante la fede che nutrono nella democrazia costituzionale.

Invece di affrontare tale problema in astratto, questo saggio si occupa nella prima parte dall’analisi del diritto positivo, in particolare muovendo da una recente pronuncia della Corte Suprema degli Stati Uniti, che ribadisce con nettezza l’importanza del principio democratico, della separazione dei poteri e la necessità per il proprio Paese di conformarsi al diritto internazionale. I problemi teorici, in questo caso, non possono essere identificati adeguatamente se li si separa dal loro concreto manifestarsi nelle strutture, nel linguaggio e nelle scelte giuridiche.

Passerò poi all’esame di due questioni correlate: il significato della deferenza nei confronti della democrazia costituzionale e la sua rilevanza come questione di diritto internazionale. D’altro canto, sarà utile rammentare alcuni standard fondamentali su cui poggia il diritto internazionale contemporaneo e alcuni degli atteggiamenti costituzionali occidentali nei loro confronti. Dopo tale ricostruzione critica, sarà possibile soffermarsi sulla ratio juris: benché il modello di rule of law che emerge dalla pronuncia della Corte Suprema confermi una visione consolidata, soprattutto nei modelli di derivazione anglosassone, esso appare inadeguato alle trasformazioni che hanno interessato il diritto internazionale nell’ultimo secolo e alla crescita progressiva del ruolo assunto da una parte oggi essenziale del diritto internazionale, ed in particolare di quella sua componente che è raccolta nella nozione di jus cogens.

Gli schemi correnti della relazione con gli ordinamenti nazionali si confrontano con domande nuove e senza precedenti, che sollecitano tutte l’impegno degli Stati con riguardo ad alcuni principi fondamentali del rule of law e sembrano pretendere sul piano giuridico (del tutto autonomamente rispetto alle connesse questioni morali) la coerenza tra i sistemi, tra l’ambito interno e quello internazionale. A questi problemi è dedicata soprattutto la seconda parte di questo lavoro.

@2. “The rule of law in this jurisdiction”

2. La decisione presa dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Hamdan v. Rumsfeld2 è stata salutata con favore da tutti coloro che, in questi anni hanno nutrito preoccupazioni per la sorte dei diritti umani, per la garanzia dell’habeas corpus, e per il rispetto del diritto internazionale. In una decisione precedente, Rasul v. Bush3, la Corte Suprema aveva ritenuto che gli stranieri detenuti a Guantanamo hanno titolo a chiedere l’accertamento della legalità della loro detenzione attraverso la petition of habeas corpus. Nel caso Hamdi v. Rumsfeld4Page 257 la Corte aveva dichiarato che il Congresso, con l’Authorization to the Use of Military Force (AUMF), all’indomani dell’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre, non aveva anche reso lecita la “indefinite detention5 nemmeno di quei militanti di Al Quaeda e dei combattenti stranieri “irregolari” che l’Esecutivo avesse definito “unlawful enemy combatants” (invece che prigionieri di guerra)6. La Corte Suprema riconobbe che il potere del Presidente degli Stati Uniti non può essere esteso al punto di cancellare il diritto dei prigionieri di avere acceso ad un giudice, il diritto alla difesa, a un processo davanti a un giudice imparziale, ad essere informati delle accuse levate contro di loro e delle pretese prove a loro carico7.

L’importanza e l’estensione della decisione Hamdan (2006) sono decisamente superiori. La Corte Suprema assume che le commissioni militari create dall’Esecutivo8 per processare i propri prigionieri non possono derivare da alcun potere tra quelli che il Congresso con l’AUMF o il Detainee Treatment Act del 2005 (DTA) ha accordato al Presidente: l’Esecutivo non ha peraltro fornito alcuna prova che nel caso di Hamdan si versasse in una situazione di emergenza nel mezzo delle ostilità di un campo di battaglia, così da dover far ricorso a procedure militari senza rispetto delle garanzie previste dalla legge di guerra (ossia gli “Articles of War”, ora Uniform Code of Military Justice (UCMJ)9. Le Commissioni militari appaiono tutt’altro che “costituite regolarmente”, visto che non si conformano alle norme valide per le corti marziali: e ciò senza che nemmeno sia offerta una spiegazione soddisfacente delle ragioni che giustifichino tale “deviazione”10. Tutto ciò è ancor più grave, visto che l’imputato potrebbe essere processato in base a prove qualsiasi, non importa con quali mezzi raccolte, purché ritenute “ragionevoli” dal presidente della commissione militare, e senza nemmeno il diritto ad essere presente (sino all’ultima decisione della Corte Suprema).

Sul piano sostanziale, la Corte sostiene che l’accusa contro Hamdan, “cospirazione”, sebbene configuri in astratto un crimine, non rientra tra quei crimini contro il diritto di guerra riservati alla giurisdizione esclusiva dei tribunali militari11. Questa conclusione è corroborata, secondo il giudice Stevens, dal fatto che tale crimine non appare nelle convenzioni internazionali né di Ginevra né del-Page 258l’Aja, e che fosse escluso dalle violazioni del diritto di guerra anche dal Tribunale

militare internazionale di Norimberga12. Ad ogni modo, la maggioranza della Corte ritiene che “la commissione militare manca del potere per procedere” poiché l’Uniform Code of Military Justice “condiziona il ricorso alle commissioni militari da parte del Presidente al rispetto non solo del comune diritto di guerra, ma anche delle restanti previsioni dell’UCMJ, in quanto applicabili, e alle ‘regole e i precetti del diritto delle nazioni’ (…) incluse tra l’altro, le quattro Convenzioni di Ginevra siglate nel 1949 (…). Le procedure che il Governo ha deciso debbano valere per il caso Hamdan, violano quelle norme”13.

In effetti, secondo la Corte, nonostante la precedente opinione contraria della Corte d’Appello, le Convenzioni di Ginevra (CG) sono divenute applicabili in giudizio (“judicially enforceable”) perché sono parte del diritto di guerra e l’osservanza del diritto di guerra è prescritta dall’art. 21 dell’Uniform Code of Military Justice. Indipendentemente dal fatto che le CG istituiscano diritti reclamabili in giudizio, comunque il Congresso le ha incluse nell’ambito del diritto statunitense. I tribunali militari costituiti per processare detenuti per violazioni del diritto di guerra non rispondono ai requisiti previsti dall’Uniform Code o dal diritto di guerra, di cui l’art. 3 comune delle CG fa senz’altro parte. L’art. 3, infatti, si riferisce anche ai conflitti “non internazionali” ed è applicabile nella lotta al terrorismo, al di là dei conflitti tra Stati: pertanto esso assicura anche ai membri di Al Qaeda garanzie fondamentali, comprese quelle contro sentenze emanate da corti irregolari, garanzie “riconosciute come indispensabili dai popoli civili”14. Nonostante la flessibilità e la vaghezza di alcune delle condizioni richiamate nell’art. 3 comune, le commissioni militari non le soddisfano, anche alla luce dell’art. 75 del I Protocollo addizionale del 1977, che assicura “garanzie fondamentali” per ogni genere di persone nelle mani di un nemico15.

La decisione della Corte Suprema è pertanto una vittoria del “rule of law”. O dovremmo semplicemente dire, come dice la Corte Suprema, del rule of law che vale in questo Paese, “that prevails in this jurisdiction”16?

Mi soffermerò a considerare se questa domanda meriti di essere posta.

@3. Ragioni e strutture

3. Le conclusioni di una corte sono importanti almeno quanto le ragioni con cui sono motivate. E nel rigettare la tesi secondo cui l’Esecutivo dispone di un “potere unitario” (unificato), quindi di un potere senza controlli e limitazioni (un blank check) in caso di sicurezza nazionale, la Corte Suprema muove da unaPage 259 motivazione fondamentale: l’obbligo costituzionale per l’Esecutivo di munirsi del consenso del Congresso onde assumere poteri eccezionali anche in tempo di guerra. Secondo la Costituzione statunitense, art. I, par. 8, il Congresso ha il potere di punire le violazioni del “diritto delle nazioni” e di “dettare le regole concernenti la cattura in terra e in mare”.

Nella decisione Rasul v. Bush (2004), il riconoscimento dell’habeas corpus a un...

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