Dalle politiche industriali in ambito comunitario alla costruzione di una economia imprenditoriale in Europa

AuthorMarina Comei
PositionAssociato di Storia economica nell’Università degli studi di Bari
Pages415-430

    Il testo che qui si pubblica è una rielaborazione della relazione presentata al convegno “Imprenditorialità e sviluppo economico. Il caso italiano”, svoltosi a Milano presso l’Università L. Bocconi il 14-15 novembre 2008.

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@1. Europa, pressione concorrenziale e crisi dell’“economia gestita”

1. Obiettivo di queste pagine è ricostruire i passaggi salienti dell’evoluzione, nell’arco di circa un sessantennio, delle politiche industriali in ambito comunitario, sino al delinearsi di un nuovo modello industriale europeo in cui l’accento non viene più posto sulla formulazione di politiche di settore indirizzate alla tutela di interi comparti produttivi o di “campioni nazionali”, ma sulla possibilità di creare una economia concorrenziale e dinamica in cui una imprenditorialità diffusa sostenga la crescita e l’occupazione. L’affermarsi di questo orientamento ha coinciso con il maturare degli esiti di un lungo processo di trasformazione del sistema produttivo europeo che ha avuto origine negli anni successivi al secondo shock petrolifero quando le economie europee sono entrate in una lunga fase di stagnazione, in cui al declino dei traffici commerciali intracomunitari, che segnalava la difficoltà a mantenere inalterato il modello di liberalizzazione degli scambi fin lì seguito, si era affiancata una progressiva perdita di quote comunitarie sul mercato mondiale dei prodotti finiti. A partire dagli anni Ottanta le analisi politiche ed economiche cominciarono a ricondurre il declino della capacità competitiva delle industrie europee, soprattutto nei settori emergenti dei nuovi macchinari, dell’applicazione delle nuove tecnologie informatiche ed elettroniche, alla persistente frammentazione del mercato comunitario dovuta alle barriere non tariffarie, alle politiche di difesa delle industrie nazionali, proprio-Page 416mentre si delineava la necessità di spingere le imprese ad una più convinta cooperazione sul terreno della ricerca1. Nei documenti comunitari la costruzione di un mercato unico, competitivo e concorrenziale diventava progressivamente un obiettivo prioritario e le capacità di innovazione degli attori economici assumevano un ruolo strategico, anche in seguito al realizzarsi della libera circolazione dei capitali ed ai progressivi mutamenti della organizzazione bancaria dei Paesi europei, al suo accentuato ruolo nel fornire capitali di rischio.

Nel 1985 si insediava la nuova Commissione presieduta da Delors che indicava nel completamento del mercato interno il principale nuovo obiettivo programmatico. Al Consiglio europeo di Milano veniva presentato il Libro bianco su questo tema e si avviava, con la sottoscrizione nel 1986 dell’Atto unico europeo e con l’iter di revisione dei Trattati, una nuova fase dell’integrazione che doveva trasformare la Comunità europea nell’Unione. Un processo di rilievo anche in quanto si è intrecciato con la complessa costruzione di una integrazione economica e monetaria che limitava sempre più le prerogative degli Stati nazionali e tendeva a frammentare quel nesso tra Stato nazionale ed industria nazionale che aveva costituito una costante di lungo periodo della storia europea, proprio in una fase di ulteriore apertura dei mercati (all’interno dell’Unione attraverso il processo di allargamento ed al di fuori di essa a causa di un più generale processo di internazionalizzazione delle economie) e di accelerato mutamento delle condizioni di concorrenza internazionale. Si trattava di un processo di cambiamento in cui, nei contenuti e negli obiettivi delle politiche industriali, si accentuavano progressivamente i punti dedicati alla crescita della competitività e al dinamismo delle imprese. Mercato unico, crescita, competitività ed occupazione sarebbero diventati i temi intorno a cui costruire una nuova politica industriale il cui obiettivo era quello di creare anche in Europa le condizioni per uno sviluppo delle forze di mercato che tuttavia non marginalizzasse le questioni attinenti al contemporaneo perseguimento di una economia solidale. Nel 2002 il “Libro verde sull’imprenditorialità”, presentato dalla Commissione, costituiva il documento più omogeneo e strutturato con cui gli organismi europei hanno inteso misurarsi con il tema dell’imprenditorialità.

La questione dell’imprenditorialità, concepita come un processo di diffusione delle attività imprenditoriali e di introduzione di nuove idee e responsabilità nelle imprese, si delineava agli inizi degli anni Novanta e prendeva corpo nel decennio successivo man mano che si imponeva il confronto con la crescita dell’economia statunitense e le politiche per il mercato assumevano un nuovoPage 417 ruolo. Da parte da alcuni economisti, come il premio Nobel Edmund Phelps2, l’affermarsi dei temi legati all’imprenditorialità è stato descritto come l’emergere per l’Europa della necessità di passare dal suo tradizionale modello corporatista, in cui i principali attori della scena economica (sindacati, associazioni di impresa, governi) agivano in funzione del mantenimento dell’equilibrio raggiunto, ad un nuovo modello in cui l’economia del rischio avesse maggiore spazio. Naturalmente non siamo di fronte ad una transizione compiuta, essa ha a lungo convissuto e convive con politiche industriali nazionali di tipico stampo corporatista e spesso rivolte a sostenere interi settori (ad esempio in Italia e altrove i provvedimenti a favore dell’industria automobilistica e meccanica, in Francia la difesa dei campioni nazionali), si è dovuta adattare alle esigenze del modello sociale europeo prevalente ed oggi è seriamente messa in dubbio dagli effetti della crisi finanziaria internazionale e dagli orientamenti emergenti per affrontarla (primato della politica sull’economia, riattualizzazione dei principi del New Deal e dell’interventismo statale, definizione di nuove strutture di controllo e di regolazione).

Tuttavia, se si vuole esaminare attraverso una prospettiva storica che cosa abbia favorito l’emergere di questo nuovo orientamento, possiamo verificare come siano stati fondamentali alcuni processi a cui abbiamo assistito negli ultimi venticinque anni del secolo scorso:

• le grandi imprese hanno dovuto cedere o condividere la loro supremazia con altri protagonisti della scena economica. Non più indispensabili per realizzare economie di scala, per sfruttare i mercati esteri e per garantire l’aggiornamento tecnologico, svantaggiate da una organizzazione della produzione poco flessibile, esposte alla concorrenza internazionale, le grandi imprese europee hanno ridimensionato le loro attività ricorrendo anche a ristrutturazioni ed esternalizzazioni;

• in molte industrie tradizionali (metallurgia, macchine utensili, tessile, automobilistica) i vantaggi relativi di cui ha goduto l’Europa sono stati modificati dai cambiamenti strutturali verificatisi nei sistemi economici a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. La pressione concorrenziale imposta dalla internazionalizzazione dell’economia da una parte ha infatti costretto molte imprese a spostare i propri impianti verso Paesi a basso costo del lavoro e di altri fattori, dall’altra ha spinto per un incremento della produttività attraverso la conoscenza e l’innovazione;

• le innovazioni tecnologiche nel settore informatico e quelle nel campo della comunicazione hanno aperto nuovi mercati e creato nuovi prodotti, promuovendo un sensibile aumento della nascita di nuove imprese, soprattutto nel campo dei servizi. Dal 1972 al 1998 nei Paesi OCSE il numero degli imprenditori è aumentato passando da 29 a 45 milioni;

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• le piccole imprese sono aumentate notevolmente di numero e sono diven-tate strumento di valorizzazione della creatività e dell’autonomia nella crescita economica e di diffusione della nuova economia.

In questo contesto il cambiamento delle politiche industriali europee è stato incisivo, in particolare se lo si confronta con quanto era avvenuto precedentemente, ed esso stesso diventava testimonianza e controprova del mutamento strutturale che stava attraversando il sistema produttivo europeo.

@2. Politiche industriali europee dalla CECA a Maastricht

2. Non è certamente casuale che la costruzione europeista del secondo dopoguerra abbia preso l’avvio con la necessità di affrontare in modo innovativo una delle questioni che per circa un secolo avevano reso drammatica la storia del vecchio continente, indicando una soluzione che, per i suoi caratteri e per le conseguenze che ne sarebbero scaturite, avrebbe creato le condizioni per una fase di ripresa e di nuova crescita. Nel 1950 le dichiarazioni di Schuman non solo facevano intendere la volontà da parte della Francia di porre fine ai tentativi di imporre alla Germania sconfitta una drastica riduzione dell’apparato industriale, ma si avanzava la proposta di mettere l’intera produzione franco-tedesca di carbone e acciaio nella disponibilità di un’autorità comune che avrebbe agito all’interno di una organizzazione aperta alla partecipazione degli altri Paesi d’Europa. L’anno seguente il Trattato costitutivo della CECA aboliva per il settore carbosiderurgico le barriere doganali tra i Paesi partecipanti, armonizzava i dazi verso i Paesi terzi e si preoccupava di garantire l’approvvigionamento del mercato comune3. I poteri attribuiti all’Alta Autorità erano limitati, nelle fasi ordinarie, alla raccolta di informazioni ed alla possibilità di fornire agli Stati ed alle imprese indicazioni di comportamento riguardo a prezzi, volumi produttivi ed investimenti, mentre nelle fasi di “crisi manifesta” le erano assegnati poteri più incisivi riguardo alla regolazione del mercato ed alla struttura della concorrenza (prezzi, importazioni, livelli di produzione). La CECA non prevedeva, dunque, misure esplicite di politica industriale, ma era essa stessa espressione di un Trattato con cui si creava per il settore siderurgico un quadro istituzionale specifico attraverso il quale sarebbe stato possibile costruire una...

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