La sentenza Granital, ventitrè anni dopo

AuthorAlessandro Pace
PositionOrdinario di Diritto costituzionale nell’Università degli studi "La Sapienza" di Roma
Pages451-467

    Relazione al seminario su “Diritto comunitario e diritto interno” tenuto presso la Corte costituzionale il 20 aprile 2007.

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@1. “Non applicazione” o “disapplicazione” delle norme interne contrastanti con la normativa comunitaria?

1. È stato giustamente osservato che il fenomeno comunitario è troppo innovativo “per cercare di ricondurlo a categorie tradizionali dei rapporti fra Stati, come il dualismo o, anche, lo stesso monismo”1.

Vera tale premessa – che a cinquant’anni dai Trattati di Roma possiamo addirittura assumere come pacifica –, ne segue che, pur ritenendo che gli ordinamenti nazionali e l’ordinamento comunitario siano tra loro distinti (i primi “generali” e il secondo “parziale”; ma il secondo “condizionante” i primi tanto nelle specifiche materie di sua competenza2, quanto nei criteri di risoluzione dei conflitti tra norme3), ciò che oggi deve soprattutto essere sottolineato della pecu-Page 452liarità di tale fenomeno – a differenza di quanto emerge dalla sentenza Granital (n. 170 del 1984, rel. La Pergola) – è che gli ordinamenti nazionali e l’ordinamento comunitario sono tra loro indissolubilmente integrati.

La sentenza Granital, muovendosi da premesse dualistiche, enfatizzava invece la netta separatezza della norma comunitaria rispetto all’ordinamento statale4, giungendo conseguentemente alla conclusione che non vi fosse un reale contrasto con la norma interna nel momento della sua applicazione da parte del giudice nazionale. La “non applicazione” della norma interna – come avrebbe successivamente spiegato il suo estensore in sede dottrinale5 – costituirebbe infatti l’effetto di un “arretramento” dell’ordinamento nazionale6. Il che, se storicamente e politicamente poteva giustificarsi alla luce del contesto nel quale la sentenza Granital fu emanata, sotto il profilo strettamente giuridico non persuade oggi, come non persuadeva allora.

E ciò è tanto vero che, già nella sentenza n. 389 del 1989 (red. Baldassarre), la Corte modificò significativamente il lessico usato per spiegare il fenomeno. Diversamente dalla sentenza Granital (secondo la quale, essendo i due ordinamenti “distinti ma coordinati”, la norma interna non verrebbe nemmeno “in rilievo” e a fortiori non sarebbe affetta da nullità), la Consulta, in questa seconda e perspicua decisione (non meno “dottrinale” dell’altra), ammise: che i due ordinamenti fossero “coordinati e comunicanti”7; che vi era “immissione diretta nell’ordinamento interno delle norme comunitarie immediatamente applicabili”; che la norma interna e quella comunitaria fossero “contemporaneamente vigenti” ancorché “reciprocamente contrastanti”. Pertanto, allo scopo di poter procedere all’applicazione della prevalente norma comunitaria – sottolineò la Corte – si rende necessaria la “disapplicazione” della norma interna da parte del giudice nazionale8.

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Con il che la Corte – avendo esplicitamente escluso, in accordo con la sentenza Simmenthal9, che il giudice nazionale potesse far luogo a “forme di caducazione o di annullamento per invalidità della norma interna incompatibile” – finiva implicitamente per ammettere che il contrasto tra le due norme si risolvesse nella nullità della norma interna10.

Ma, proprio perchè “nulla” – e, quindi, non “annullabile” –, la norma interna resterebbe vigente in tutti quei rapporti direttamente non rientranti nell’effetto di giudicato della pronuncia del giudice che l’ha disapplicata (preferendole la norma comunitaria). Essendo quindi ancora “esistente” e potenzialmente produttiva di effetti – sottolineò ancora la sentenza n. 389 del 1989 –, la norma interna, pur dopo essere stata disapplicata, deve necessariamente essere assoggettata a doverosa modifica o ad abrogazione (espressa) allo scopo di depurare l’ordinamento interno “da eventuali incompatibilità o disarmonie con le prevalenti norme comunitarie”11; e quindi a fini di certezza del diritto sia comunitario che interno12.

Va comunque sottolineato che la previsione del potere di disapplicazione delle norme interne, ancorché legislative, da parte dei giudici comuni, è agevolmente riconducibile alle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost. – come del resto ha sempre sostenuto la Consulta (sia che alludesse alla non applicazione che alla disapplicazione). Non è quindi necessario, a tal fine, postulare che la fonte del potere di disapplicazione vada rinvenuta nell’art. 249 TCE (e quindi in un pretesa “superiorità” o “generalità” dell’ordinamento comunitario13Page 454 – entrambi, comunque, a ben vedere insussistenti)14. Se infatti si tiene presente che il potere di disapplicazione, nell’ipotesi che ci occupa, assume a parametro il diritto comunitario e non la Costituzione, appare fuor di luogo il richiamo, in senso contrario, agli articoli 136 Cost. e 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948 (concernenti entrambi l’incostituzionalità delle leggi), come ritenuto dall’autorevole dottrina che ha prospettato tale tesi15. E perciò l’attribuzione ai giudici comuni del potere di disapplicare le leggi si spiega anch’esso agevolmente alla luce dell’art. 11 Cost., soprattutto se si sottolinea – come già in precedenza ricordato – che l’ordinamento comunitario, pur essendo parziale, condiziona, nelle materie di sua competenza, gli ordinamenti generali statali nei quali, come disse la Corte di giustizia già nel 1964, esso è integrato16.

Con la conseguenza che è del tutto logico che spetti all’ordinamento parziale di prescrivere non solo quali siano le norme, da esso promananti, che devono prevalere nell’ordinamento generale, ma anche le modalità (sindacato accentrato o diffuso) con le quali tale prevalenza deve essere assicurata.

@2. La tortuosa tutela dei controlimiti costituzionali disegnata dalle sentenze Frontini e Granital

2. Il secondo rilievo che suscita la sentenza Granital – qualora se ne voglia verificare l’attualità – sta in quel passaggio finale di tale decisione (cons. dir., n. 7), nel quale, ricollegandosi al n. 9 della motivazione della sentenza Frontini n. 183 del 1973 (rel. Astuti)17, la Corte rileva come la legge di esecuzione del Trattato potrebbe andare soggetta al suo sindacato nell’ipotesi in cui un regola-Page 455mento comunitario (ma anche un qualsiasi altro atto comunitario immediatamente applicabile), esorbitando dai limiti previsti dal TCE, pregiudicasse i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona umana.

Questa “tortuosa”18 soluzione del problema dei controlimiti – di cui la Corte ha effettuato una prima, ma incompleta applicazione nella famosa sentenza Fragd (concernente il diritto dell’attore a beneficiare degli effetti favorevoli della pronuncia da lui stesso provocata)19 – ha sollevato20 e solleva tuttora non poche perplessità.

In primo luogo, questa tesi, prospettando che il regolamento comunitario, nel violare i controlimiti “costituzionali”, coinvolgerebbe, in fin dei conti, la normaPage 456 del Trattato che lo disciplina (e cioè l’attuale art. 249 TCE), ha il difetto di far risalire i “peccati” della norma di produzione – e cioè del regolamento comunitario (o della direttiva self-executing) – alla norma sulla produzione giuridica, la quale però, a ben vedere, si limita a disporne la generale e immediata obbligatorietà. L’eventuale accoglimento di tale tesi, in una sentenza della Corte costituzionale, potrebbe pertanto assumere il significato di una revoca del consenso libero e consapevole prestato a suo tempo dallo Stato italiano al Trattato CE21.

In secondo luogo, è assai dubbio che, in sede comunitaria, sarebbe produttiva di effetti la pronuncia della Corte costituzionale che dichiarasse – senza che al relativo giudizio partecipino la CE e gli altri Stati membri – l’incostituzionalità dell’art. 249 TCE “nella parte in cui” uno degli atti comunitari ivi contemplati avesse pregiudicato i principi fondamentali della nostra Costituzione.

Una cosa infatti è la declaratoria d’incostituzionalità di una disposizione della legge di esecuzione di un trattato bilaterale, come quello del 1929 con la Santa Sede (v. sul punto la sentenza n. 18 del 1982, peraltro concernente l’incostituzionalità di una norma di produzione contenuta nel Concordato), altra e ben diversa cosa è la declaratoria d’incostituzionalità della legge di esecuzione di una norma sulla produzione contenuta in un trattato plurilaterale.

Tale pronuncia sarebbe poi probabilmente considerata “irricevibile” a livello europeo. Potrebbe infatti giustamente opporsi, in quella sede, che essa incide inammissibilmente sull’art. 249 TCE, il quale non ha alcun collegamento sostanziale con il contenuto (assertivamente “incostituzionale”) dell’atto comunitario concretamente lesivo, dato che l’art. 249 TCE si limita a disciplinarne gli effetti.

Infine, a chi pretendesse di far valere in sede comunitaria la sentenza dichiarativa dell’incostituzionalità in parte qua della legge di esecuzione del TCE (con specifico riferimento all’art. 249), potrebbe eccepirsi – in via assorbente – che la via per contestare la legittimità degli atti normativi comunitari è solo quella della tempestiva impugnazione di tali atti dinanzi alla Corte di giustizia, nei termini di decadenza previsti dall’art. 230, 5º comma TCE.

@3. L’indiretta tutela dei controlimiti “costituzionali” dinanzi alla Corte di giustizia

3. Sotto un diverso profilo, il problema dell’incidenza degli atti comunitari sulla normazione costituzionale è stato già affrontato dalla Consulta.

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In un’importante ancorché discutibile sentenza, la Corte, dopo aver riconosciuto che “gli organi delle Comunità europee non sono tenuti ad osservare puntualmente la disciplina nazionale e, in particolare, la ripartizione delle competenze pur prevista da norme di livello costituzionale”, affermò infatti – pur ribadendo la salvezza dei principi supremi e dei diritti inviolabili – che “le norme comunitarie (…) se hanno derogato a disposizioni di rango costituzionale, debbono...

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