La lunga transizione della Bosnia ed erzegovina "da Dayton a Bruxelles"

AuthorJens Woelk
PositionRicercatore di Diritto pubblico comparato nell'Università degli studi di Trento
Pages508-528

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@1. Introduzione: la Bosnia prigioniera di Dayton

1. La situazione della Bosnia ed Erzegovina (BiH) a quasi 15 anni dalla fine della guerra e dalla conclusione dell'Accordo di Pace di Dayton continua a essere difficile1. Il Paese rimane profondamente diviso al suo interno, fra le due Entità - la Republika Srpska (RS) e la Federazione di Bosnia-Erzegovina (FBH) -, i 10 Cantoni all'interno di quest'ultima e perfino i tanti Comuni. Nonostante i progressi in alcuni settori e il successo della conclusione dell'Accordo di stabilizzazione e di associazione (SAA) nel mese di giugno 2008, anche le ultime relazioni della Commissione europea mettono in evidenza le disfunzionalità istituzionali e amministrative del livello statale e il deterioramento della situazione nei rapporti etnici, caratterizzata dalla "retorica infiammatoria" e nazionalista dei politici2.

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Attualmente il rischio maggiore non è tanto il pericolo concreto di nuove ostilità e di violenze fra i gruppi etnici principali (bosgnacchi, croati e serbi)3, ma - meno drammatica e più pericolosa nella prospettiva di medio e lungo termine - la stagnazione permanente del Paese, in un contesto regionale di forte cambiamento, e la sua dipendenza economica dai vicini. Il problema principale è quindi che la prospettiva dell'adesione futura all'Unione europea e la condizionalità non sembrano4, nel caso bosniaco, sufficienti come incentivi per avviare riforme necessarie, in particolare sembra proprio che da sole non bastino per superare le divisioni etniche e per creare uno Stato funzionante, presupposto per la stessa adesione. Infatti, dal 2006 ad oggi, sono falliti tutti i tentativi, sia quelli eterodotti sia quelli endogeni, di arrivare ad una riforma costituzionale che da tanti è vista come prova necessaria della maturità politica della Bosnia ed Erzegovina e della responsabilità per gli affari propri (la c.d. local ownership).

Cercando di dare alcune risposte sulle ragioni dello stallo attuale e sulle opzioni degli attori bosniaci e internazionali, si parte da un breve riassunto delle fasi della transizione costituzionale della Bosnia per focalizzare poi sul ruolo importante della comunità internazionale (in particolare sull'istituzione di vertice, l'Alto rappresentante e il Rappresentante speciale dell'UE) e, infine, analizzare i vari tentativi di riforme costituzionali, sia per quanto riguarda i loro contenuti principali al fine di individuare i punti più importanti sia per valutare le future opzioni e prospettive.

@2. La transizione costituzionale: dall'Accordo di pace alla fase delle "correzioni costituzionali"

2. Dalla prospettiva giuridica il fenomeno delle transizioni politico-costituzionali riguarda prevalentemente l'atto di rottura e di fondazione della legittimità del nuovo ordinamento5, tuttavia, in alcuni ordinamenti dell'area balcanica proprio la determinazione di tale momento non risulta facilmente individuabile nei processi di transizione relativamente lunghi e articolati in più fasi. Da questa osservazione prende spunto l'analisi del processo di transizione costituzionale nel caso bosniaco, per il quale si possono distinguere, a partire dall'Accordo di Dayton, tre fasi principali6: ad una prima fase di attuazione dell'Accordo segue una fase "correttiva", caratterizzata dalla passività e dall'ostruzione dei politici nelle

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istituzioni e, in reazione, dagli interventi della Corte costituzionale e dell'Alto rappresentante della comunità internazionale. Successivamente, è soprattutto l'obiettivo dell'integrazione europea a determinare il passaggio ad una maggiore responsabilità bosniaca e a richiedere l'aggiustamento dei delicati equilibri dell'ordinamento imposto.

L'azione di attori esterni diversi - varie organizzazioni internazionali, Stati, e sempre di più l'Unione europea - continua a caratterizzare e a condizionare fortemente i processi di transizione nell'intera area balcanica: il caso bosniaco può essere considerato paradigmatico sia a causa della durata e dell'intensità dell'intervento sia per il significato costitutivo che esso ha per l'ordinamento imposto con l'Accordo di Pace di Dayton.

L'attuale ordinamento costituzionale è stato imposto nel 1995, da parte della comunità internazionale, per mettere fine alla guerra e allo stesso tempo creare le basi per una certa stabilità nel dopoguerra; la principale preoccupazione era quindi quella per la sicurezza: dopo tre anni di guerra con più di 100.000 vittime e più di un milione di rifugiati e sfollati, l'ordinamento doveva soprattutto garantire stabilità e impedire nuova violenza. La Costituzione bosniaca è, nella sola lingua inglese, conenuta nell'allegato IV all'Accordo di pace di Dayton. Il deficit di legittimazione interna di tale Costituzione non è tuttavia solo di carattere linguistico (va ricordato che non esiste nessuna traduzione ufficiale nelle lingue bosniache)7, ma anche democratico in quanto l'Accordo di pace - e quindi anche la Costituzione - è stato siglato con tre firme che rappresentano sì i tre popoli costitutivi, ma rappresentati attraverso il Presidente della Bosnia, A. Izetbegovice, e i due capi di Stato della Croazia e dell'allora Repubblica federale di Iugoslavia, F. Tudjman e S. Milocevice, come madrepatrie di due dei gruppi presenti in Bosnia.

L'analisi delle principali caratteristiche dell'ordinamento costituzionale deve focalizzare soprattutto il peculiare sistema federale, e in particolare il rapporto fra il debole "Stato" e le sue due unità costitutive, le "Entità", nonché le diverse forme e garanzie dell'istituzionalizzazione del fattore etnico. Tale interpretazione bosniaca del modello di democrazia consociativa o di power sharing ha portato ad un sistema istituzionale asimmetrico, estremamente complesso e spesso disfunzionale, con un centro debole, tanti/troppi governi (quattordici fra Stato, Entità, Cantoni e distretto di Brecko) e costi enormi.

Nell'ordinamento federale è omnipresente la logica del cessate il fuoco, a partire dalla divisione del territorio fra le parti belligeranti rappresentate in due "Entità": con il 49% del territorio alla Repubblica serba (RS) dichiaratasi indipendente nel 1991, dopo un referendum, e il 51% all'alleanza fra bosgnacchi-musulmani e croati, che, su forte pressione americana, avevano fondato la Federazione di Bosnia-Erzegovina (FBH) a Washington nel 19948. Mentre la prima, nonostante la sua divisione geografica in due parti si presenta come uno Stato unitario, la seconda è un sistema federale costituito da 10 Cantoni (a maggioranza croata o bosgnacca; con solo due Cantoni misti). Oltre a questi "gemelli" molto diversi fra loro c'è il distretto di Brecko posto sotto amministrazione internazionale diretta, in seguito ad

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un lodo internazionale9, a causa della sua importanza strategica trovandosi la città proprio sul punto che collega le due parti della RS.

Mentre le due Entità sono considerate territori dei gruppi "titolari" e dotate di tutti i poteri importanti, inclusi i rapporti speciali con Stati confinanti, il livello federale è - volutamente - debole. Le "istituzioni statali" dispongono soltanto di poche competenze e risultano spesso bloccate dagli ampi strumenti di garanzia dei gruppi. Nella logica della stabilizzazione post-conflittuale, gli elementi principali delle garanzie sono l'elezione diretta (e separata) della Presidenza tripartita, la rappresentanza paritetica di tutti i gruppi nel Consiglio dei Ministri e in altre istituzioni a livello statale, la divisione in due elettorati corrispondenti alle Entità, la garanzia di un'ampia autonomia delle due Entità nonché diversi diritti di veto per motivi etnici; questi ultimi sono stati frequentemente utilizzati, soprattutto a livello statale, per bloccare decisioni e l'adozione di leggi10. L'uso frequente e ostruzionista di tali strumenti è espressione di un "federalismo etnico" basato sull'identificazione di un territorio con un gruppo dominante.

Alla risultante staticità e tendenziale segregazione dei gruppi si contrappone, tuttavia, come elemento dinamico l'obiettivo (politico e internazionale) della ricostruzione della società multietnica bosniaca che doveva essere raggiunto attraverso la effettiva realizzazione del diritto al ritorno dei rifugiati e degli sfollati garantito dall'allegato VII dell'Accordo di pace. Il contrasto fra tale elemento dinamico e l'obiettivo della sicurezza che premia lo status quo, ha posto la domanda come superare la situazione di stallo e di blocco e fare funzionare la Costituzione, anche al fine di garantire il diritto al ritorno volontario e alla reintegrazione armoniosa, senza privilegio di alcun gruppo.

Le politiche di ostruzionismo e le disfunzionalità nell'attuazione dell'Accordo di Dayton rendevano necessari degli interventi correttivi da parte delle due istituzioni di garanzia: la Corte costituzionale come istituzione costituzionale e interna, e l'Alto rappresentante della comunità internazionale come garante esterno. Nei loro interventi correttivi per la piena attuazione e per rendere più funzionale l'assetto istituzionale e competenziale complessivo può essere individuata una seconda fase della transizione costituzionale.

L'impulso più forte per lo sviluppo dell'ordinamento costituzionale è arrivato dalla Corte costituzionale. Basandosi sull'uguaglianza dei tre popoli costitutivi risultante soprattutto dal preambolo della Costituzione di Dayton, nella sua sentenza del 1° luglio 200011 la Corte costituzionale sottolinea il carattere multinazionale di tutto l'ordinamento e a tutti i livelli traendone delle conseguenze per le Costituzioni e per le istituzioni delle Entità, che non possono essere considerate "territori di un gruppo soltanto". La leva argomentativa usata dai giudici costituzionali è soprattutto la garanzia del ritorno dei rifugiati e degli espulsi (prevista dal già menzionato allegato VII), difficilmente realizzabile nella prassi a causa della frequente...

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