Unione europea: un’identità plurale nella memoria

AuthorAlessandro Lattarulo
PositionDottore di ricerca in Profili della Cittadinanza nella costruzione dell’Europa nell’Università degli studi di Catania
Pages389-414

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@1. Europa e melanconia

1. Un tratto comune percorre tutte le leggende fiorite per descrivere le peripezie di Cadmo, l’eroe semita che parte da Oriente per cercare la sorella Europa rapita da Zeus, senza però ritrovarla perché il corpo di lei ormai si è fuso con la terra d’Occidente1: l’Europa non è qualcosa che si scopre, bensì qualcosa da fare, creare, costruire. È una missione che implica un lavoro quasi per definizione senza fine2.

La metafora mitologica che celebra l’incontro tra Asia, Africa, Mediterraneo ed Europa ben definisce per quest’ultima, nonostante la contraddittoria apparenza, una missione che la stimoli a quell’irto compito che le assegnò Václav Havel alla vigilia dell’allargamento a 25 membri, auspicando che “è giunta l’ora in cui l’Europa dovrebbe finalmente rinunciare a pensare che deve esportare sé stessa nel mondo intero e sostituire a questa idea un’intenzione più modesta, ma più difficile da perseguire: iniziare a cambiare il mondo partendo da sé stessa, rischiando anche che nessuno segua il suo esempio”3. Non dunque con intento isolazionistico, quanto piuttosto per bypassare quelle periodiche crisi di autostima che quasi trasmettono la sensazione che l’Europa non possa vivere serena senza dover rincorrere l’America. Sicuramente le politiche pubbliche di uno Stato vengono valutate dagli elettori principalmente da un’ottica economica, eppure l’avvitamento su di sé dell’Unione europea sembra in larga misura dovuto all’incapacità di dotare l’impianto comunitario anche di un’anima sociale e culturale meglio integrata, che eviti le distorsioni foriere di diffidenza a cui assistiamo ancora nel settore agricolo.

Jeremy Rifkin si è trasformato in portavoce di una simile posizione, scrivendo che risulterebbe paradossale e fuori tempo concepire un sogno europeoPage 390 che si prefigga di emulare l’american dream proprio nell’epoca in cui quest’ultimo risulta centrato esclusivamente sul progresso materiale personale e per nulla preoccupato del benessere dell’umanità, entro una cornice di maggiore giustizia planetaria, per mantenere quel fascino che ha largamente contribuito ad avvicinargli giovani e intellettuali4. In un mondo caratterizzato da diversità e interdipendenza, l’utilizzo della propria potenza militare senza un corrispondente impegno per ridurre le sperequazioni che destinano ai quattro quinti del pianeta un solo quinto delle risorse, viene inevitabilmente stigmatizzato come un vizio neoimperialistico di sottomissione del diverso.

E tuttavia l’Europa rimane ancora incompresa. Un enorme “non”, puntualizza Ulrich Beck, ricordando, per sconfiggere ogni possibile equivoco, che essa non può considerarsi né Stato né società, a differenza degli USA5. L’Europa combatte contro la soffocante pressione di teorie olistiche e spesso tenta di non farsi imbrigliare nella prospettiva (pan)istituzionalista che ammalia le classi dirigenti nazionali, garantendo loro una gestione verticistica di ogni approfondimento comunitario, senza pagare dazio alla gracile legittimità delle scelte effettuate in ossequio a mandati popolari diversamente circoscritti.

Risulterebbe inutilmente sbrigativo minimizzare la perturbazione che l’integrazione europea patisce dopo gli esiti referendari relativi all’approvazione del cosiddetto Trattato costituzionale firmato a Roma il 29 ottobre 2004. È del tutto evidente che le bocciature popolari arrivate da realtà trainanti nell’avventura unitaria, come la Francia e i Paesi Bassi, evidenziano l’indisponibilità di molti attori sociali, individuali e collettivi, a rimanere spettatori passivi di percorsi imboccati paternalisticamente e hanno portato a galla un malessere profondo, con il senno di poi da sospettare rimasto latente per anni. Nella valutazione della crisi in corso occorre tuttavia ponderare la valutazione politica con il giudizio di longue durée. L’invito formulato da Mario Telò opportunamente riconduce la stagnazione attuale in un alveo storico, da cui poterla valutare con giusto distacco, senza inutili drammatizzazioni6. Come in occasione di passate crisi, un’iniziativa politica è in grado di invertire la rotta, eppure la serena messa in conto di inevitabili ostacoli minaccia di manifestarsi controproducente qualora trascuri di contribuire all’elaborazione di un pensiero egemonico che assuma come fondativo dell’agire politico il valore dell’incontro e del dialogo della civiltà, al fine di arrestare disastrose derive nazionalistiche e populistiche.

In tale ottica, non risulta esaustiva la diagnosi tracciata con acribia da un europeista convinto come Tommaso Padoa-Schioppa. Descrivere l’Europa – ancora lungi dal coincidere geopoliticamente con l’UE – afflitta da una melan-Page 391conia che ne determinerebbe la crisi economica, politica, istituzionale, assume pienamente senso a patto di ricorrere alla distinzione tra lutto e melanconia tracciata da Freud. Secondo il padre della psicoanalisi, mentre nel lutto è il mondo a risultare impoverito e svuotato, nel caso della melanconia impoverito e svuotato è l’Io stesso. L’Io collettivo nel caso dell’Europa, nella cui società è riscontrabile un’interruzione del rapporto biunivoco con il mondo esterno, che Padoa-Schioppa ha presentato precipuamente attraverso sintomi quali la sfiducia, l’inazione, il ripiegamento su sé stessi, una scarsa opinione di sé7. Addirittura incapacità di prendere coscienza di sé, secondo Pasquale Serra, che, provando ad abbozzare una lettura storica del rapporto tra Europa e Mondo, connette il carattere pesantemente introvertito della crisi continentale all’Ottantanove, punto di svolta mai accuratamente metabolizzato dall’Europa. Eppure proprio dalle macerie del bipolarismo si è dischiusa per l’auld continent l’opportunità di fungere da ago della bilancia nel quadro delle interdipendenze mondiali8. Interpretazione riccamente sostenuta sotto il profilo scientifico, per niente avulsa dalle vicende che innervano il nuovo millennio, ma che rimane incagliata sui fondali delle premesse dell’ontologia nazionale, dove si rintraccia un retropensiero assai diffuso, che postula la necessità dello Stato.

In verità, aderendo all’elaborazione del nuovo cosmopolitismo di cui Beck si è reso protagonista negli ultimi anni, riteniamo di essere attualmente testimoni di una trasformazione della modernità che coinvolge e minaccia di travolgere le scienze umane e sociali. Il processo di europeizzazione, proprio grazie ai suoi successi, risulta bloccato su di una soglia critica, giacché le riserve di energia politica scaturenti da una visione dell’Europa connotate in senso nazional-statale si sono esaurite9. Si sono esaurite come aveva rilevato Luhmann all’alba degli anni Novanta, quando denunciò ripetutamente che l’apparato semantico della vecchia Europa non costituiva più, per unanime consenso, una ricchezza culturale considerata intoccabile, dividendo però la comunità scientifica riguardo alle conseguenze da trarne10. In un pensiero pur complesso, labirintico, spesso attraversato dall’affannosa ricerca di una rappresentazione della società in grado di intavolare un discorso non stagnante sulla società capitalistica, il sociologo tedesco rilevava tra il serio e il faceto che, a conti fatti, alla pur deprecata proclamazione del “postmoderno” andava attribuito quantomeno un merito. Essa avevaPage 392 infatti reso indiscutibile che la società moderna non fosse più convinta di saper fornire descrizioni corrette di sé stessa e che pertanto la razionalità impostasi compiutamente a partire dal diciassettesimo secolo stava perdendo familiarità con le distinzioni, uno dei suoi tratti dominanti11.

Tesi altamente controverse, quelle di Serra e Luhmann, il cui apprezzabile impianto di fondo non ci lascia sfuggire la ragione che accompagna i timori di tutti coloro che nello Stato vedono un Leviatano più o meno benevolo, indispensabile a maggior ragione in una fase di difficoltà come quella presente, al fine di evitare il ritorno a uno Stato di Natura, alla barbarie che subentra quando la civilizzazione si inceppa. Proprio per tale motivo la ricognizione della salute dello Stato-istituzione evidenzia contraddizioni che, a differenza di quanto sostenuto da Biagio De Giovanni12, lungi dal creare maggiore disordine sotto il cielo aderendo alle proposte formulate da Beck – e non solo da lui – per un cosmopolitismo bene inteso, trasformano la fluidità delle categorie di comprensione del mondo in occasione per tessere un nuovo “realismo”. Un realismo cosmopolita, che si scrolli di dosso quell’aura utopistica che finisce inevitabilmente per rimandarne ogni possibile attuazione, contrapponendogli il (presunto) virtuosismo della Realpolitik strategicamente immaginata sulla scacchiera planetaria dove le pedine sono ancora i singoli Paesi. In ballo vi è infatti la possibilità di scoprire e fondare una società e una politica che si presentino emancipate da stabilizzatori tarati sui risvolti positivi e su quelli tragici della lezione nazionalstatale. La domanda che Beck condensa in termini di analisi delle chances di successo di una integrazione sociale e politica attraverso la cosmopolitizzazione è cruciale per l’Europa, tenuto conto della sua tradizione ondulata, soprattutto in relazione alle implicazioni che il motto “unita nella diversità” contiene come nocciolo dialogante.

Vi è un’ambivalenza agonistica che Cacciari rintraccia nella contrapposizione antichissima tra Oriente e Occidente e che, richiamando lo storico Federico Chabod, potremmo dire aver costituito comunque il sorgere di un nucleo d’Europa per differentiam, quasi in attesa che l’identità si definisse più compiutamente. Eppure, come da considerazioni di Morin, l’identità europea non può essere altro che una poliidentità. Attraverso il tentativo di agglutinare la realtà, viviamo nell’illusione che l’identità sia unica e indivisibile, mentre è sempre una unitas multiplex, una federazione di identità che ben si attaglia all’originalità comunitaria13, a...

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