Raccolta di capitale di rischio e di capitale di debito: la disciplina italiana

AuthorFabio Marchetti - Federico Rasi
PositionProfessore Associato di Diritto Tributario presso l’Università Luiss G. Carli - Dottore di Ricerca in Diritto Tributario delle Società e collabora con l’Università Luiss G. Carli
Pages1-38
Studi Tributari Europei 1/2010
Raccolta di capitale di rischio e di capitale di debito: la
disciplina italiana
Fabio Marchetti e Federico Rasi1
1. Considerazioni introduttive.
Il problema della neutralità fiscale tra le forme di finanziamento dell’impresa
(ovverosia fra il ricorso a capitale di rischio piuttosto che a quello di debito)
è noto al legislatore italiano che, come si vedrà nei successivi paragrafi, più
volte è intervenuto in materia, senza tuttavia mai trovare soluzioni
pienamente soddisfacenti.
Secondo la dottrina economica2, un sistema neutrale, equo ed efficiente è
quello che considera gli interessi passivi (ovverosia il costo del debito)
deducibili in capo alla società e tassati in capo al percettore con l’imposta
personale e gli utili (ovverosia il costo del capitale di rischio) tassati in capo
alla società, ma di fatto solo come una sorta di anticipo dell’imposta
personale del socio dovuta sui dividendi (la cui distribuzione è indeducibile
per la società). Un simile modello consente un trattamento fiscale
complessivo su interessi e dividendi uniforme, limitando le possibili
distorsioni nelle scelte finanziarie delle imprese solo al diverso trattamento
degli utili trattenuti, tassati con la sola imposta societaria, fino al momento
della loro realizzazione da parte del socio.
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1 Il Prof. Fabio Marchetti è Professore Associato di Diritto Tributario presso l’Università Luiss
G. Carli; il Dott. Federico Rasi è Dottore di Ricerca in Diritto Tributario delle Società e
collabora con l’Università Luiss G. Carli.
I paragrafi 3 e 4 (ed i relativi subparagrafi) sono a cura del Prof. Fabio Marchetti.
I paragrafi 1 e 2 (ed i relativi subparagrafi) sono a cura del Dott. Federico Rasi.
2 S. Giannini, Gli interessi passivi nel quadro della tassazione societaria internazionale, in
Dial. trib., 2008, pag. 14.
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L’Italia3 si discosta da questo benchmark4.
Gli interessi, deducibili in capo alla società, sono tassati con aliquote
cedolari del 20%5; gli utili, indeducibili in capo alla società, sono
parzialmente tassati in capo al percettore o soggetti a regimi di tassazione
sostituiva in modo da determinare un prelievo “aggregato” (tassazione in
capo alla società e tassazione in capo al socio) ora fra il 35,8% ed il 43%.
Ciò rende il ricorso al capitale di debito preferibile per gli investitori così da
aver costretto il legislatore italiano a prevedere strumenti di volta in volta
differenti per contrastare la sottocapitalizzazione delle imprese.
Si può sin d’ora rilevare che la leva maggiormente utilizzata dal legislatore
per combattere tale fenomeno è stata quella di limitare e condizionare la
deducibilità degli interessi passivi in capo alle imprese; pressoché nulli sono
stati gli interventi in capo ai percettori. Per i percettori (specialmente se
persone fisiche), la tassazione sia dei dividendi sia degli interessi segue di
norma regole proprie che, in maniera alquanto indiretta, cercano di
perseguire il fine della neutralità tra le fonti di finanziamento dell’impresa.
Nella presente trattazione, saranno oggetto di analisi prima le disposizioni
con le quali il legislatore italiano ha cercato di contrastare la
sottocapitalizzazione delle imprese e successivamente le regole di
tassazione di dividendi ed interessi in capo ai percettori. Si anticipa sin d’ora
che la loro analisi restituisce l’impressione che quello italiano è un sistema
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3 Brevemente si ricorda, per quanto qui di interesse, che le società e gli enti commerciali
residenti sono soggetti ad un’imposta proporzionale del 27,5% sul reddito complessivo
ovunque prodotto denominata Imposta sul Reddito delle Società (IRES). Le persone fisiche
residenti sono soggette ad un’imposta personale progressiva per scaglioni sul reddito
complessivo ovunque prodotto denominata Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche (IRPEF)
con aliquote del 23% (fino a 15.000 euro), del 27% (oltre 15.000 euro e fino a 28.000 euro),
del 38% (oltre 28.000 euro e fino a 55.000 euro), del 41% (oltre 55.000 euro e fino a
75.000 euro), del 43% (oltre 75.000 euro). Le attività economiche (di impresa e lavoro
autonomo) sono inoltre soggette all’Imposta Regionale sulle Attività Produttive (IRAP) con
un’aliquota base del 3,9% su un imponibile particolarmente ampio (comprensivo delle spese
del personale e degli interessi passivi).
4 S. Giannini, Gli interessi passivi nel quadro della tassazione societaria internazionale, cit.,
pag. 15.
5 Tale aliquota risulta a seguito delle modifiche apportate al sistema tributario dal d.l. 13
agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.
Esso ha sostituito le precedenti aliquote di tassazione dei redditi di capitale e diversi di
natura finanziaria del 12,5% e del 27% con un’unica aliquota del 20%. Questa si applica agli
interessi, ai premi e a ogni altro provento costituente reddito di capitale, nonché ai redditi
diversi, rispettivamente esigibili e realizzati dal 1° gennaio 2012; per i dividendi e proventi a
essi assimilati l’aliquota unica si applica a quelli percepiti dal 1° gennaio 2012, a prescindere
dalla data di delibera di distribuzione.
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non neutrale in cui residuano ampi spazi ai contribuenti per arbitraggi tra il
ricorso al capitale di debito piuttosto che a quello di rischio. Come si vedrà,
risulta più conveniente per gli imprenditori ricorrere all’indebitamento
piuttosto che al conferimento di denaro.
2. La deducibilità degli interessi passivi nel reddito di impresa.
Come accennato, la direttrice di fondo su cui si è mosso il legislatore italiano
nel cercare un equilibrio fra il trattamento del capitale di rischio ed il
trattamento del capitale di debito è stata quella di limitare, in assoluto o in
presenza di determinate condizioni, la deduzione degli interessi passivi.
Trattasi di un intervento (o meglio, di diversi interventi tempo per tempo
adottati) sul quantum delle deduzione, piuttosto che sull’an.
Sotto tale secondo profilo, invero, il problema teorico che si è posto (ed è
stato positivamente risolto) è se la deducibilità degli interessi passivi nel
reddito di impresa risponda ai principi generali che governano tale categoria
reddituale. Anche per questo componente, dovrebbero, infatti, valere i
criteri contenuti nell’art. 109 t.u.i.r., ovverosia il criterio di attribuzione
temporale all’esercizio di competenza, la necessità della previa imputazione
a conto economico e quello dell’inerenza allo svolgimento dell’attività di
impresa6.
Mentre l’applicazione dei primi due principi (competenza e previa
imputazione) risulta pressoché pacifica, non altrettanto può dirsi per
l’applicazione del principio di inerenza7. La Corte di Cassazione, chiamata in
varie occasione ad occuparsi della questione8, è giunta a conclusioni non
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6 L. ROSA., Il principio di inerenza, in Il reddito di impresa, a cura di G. Tabet, Padova,
1997, pag. 138.
7 Questo, come noto, va inteso nel senso della rilevanza ai fini della determinazione del
reddito di impresa dei costi che evidenziano un collegamento tra il loro sostenimento e
l’attività esercitata dall’imprenditore o dalla società. In questo senso anche la giurisprudenza
cfr.: Cass., sent. 21 aprile 2008, n. 10257; Cass., sent. 30 luglio 2007, n. 16824; Cass.,
sent. 13 ottobre 2006, n. 22034; Cass., sent. 13 settembre 2006, n. 19610).
8 Il dubbio circa la sua applicabilità agli interessi passivi deriva da una differente
formulazione letterale fra l’art. 61 t.u.i.r., relativo al reddito di impresa prodotto dai soggetti
passivi IRPEF, e l’art. 109 t.u.i.r., per le società di capitali cui si applica l’IRES: mentre l’art.
61, infatti, condiziona espressamente la loro deducibilità al test dell’inerenza, invece, l’art.
109 non fa alcun riferimento esplicito a tale requisito.
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