Obbligo di recupero degli aiuti illegali e incompatibili e res judicata nazionale: il caso Lucchini

AuthorGiacomo Gattinara
PositionDottore di ricerca in Diritto internazionale e dell’Unione europea dell’Università degli studi di Roma "La Sapienza"
Pages639-664

    L’autore ringrazia l’Avv. Isabella Perego e il Dott. Fabio Spitaleri per gli utili consigli ricevuti su una precedente versione di questo scritto. Eventuali errori ed imprecisioni sono imputabili esclusivamente all’autore.

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@1. Le questioni pregiudiziali sollevate, le conclusioni dell’Avvocato generale e la pronuncia della Corte

1. Il 18 luglio 2007 la Corte di giustizia delle Comunità europee si è pronunciata nel caso Ministero dell’Industria, Commercio e Artigianato c. Lucchini, rispondendo ad alcune questioni pregiudiziali sollevate dal Consiglio di Stato in relazione alla disciplina comunitaria degli aiuti pubblici del Trattato CECA1.

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Al fine di ammodernare alcuni impianti siderurgici, la S.p.a. Lucchini presentava una domanda di aiuti alle autorità competenti, le quali notificavano alla Commissione le misure di aiuto in attesa di una decisione sulla loro compatibilità con il mercato comune.

A fronte delle lungaggini della relativa istruttoria, nel 1988 alla Lucchini veniva riconosciuto un contributo a titolo provvisorio, subordinando però l’erogazione definitiva delle somme all’approvazione della Commissione. In seguito, con decisione del 20 giugno 1990, notificata alla Lucchini ma da essa non impugnata dinanzi al giudice comunitario secondo l’art. 33, 3° comma, del Trattato CECA, la Commissione dichiarava incompatibili gli aiuti in questione2.

Prima che la Commissione adottasse la decisione in questione, la società Lucchini aveva citato dinanzi al Tribunale di Roma il Ministero dell’Industria, Commercio e Artigianato (di seguito il Ministero) per ottenere il pagamento di tutte le somme ad essa dovute in virtù della legislazione italiana. Nonostante la sopravvenuta decisione della Commissione, la Lucchini otteneva una pronuncia favorevole in entrambi i gradi di giudizio, dinanzi al Tribunale civile di Roma con sentenza del 24 giugno 1991 e dinanzi alla Corte d’Appello di Roma con sentenza del 6 maggio 1994, la quale non veniva impugnata mediante ricorso per cassazione passando quindi in giudicato.

Dinanzi al Tribunale di Roma non era stata fatta alcuna menzione di disposizioni di diritto comunitario. Solamente nel giudizio di appello, il Ministero aveva affermato in via subordinata che l’obbligo di corresponsione dell’aiuto alla Lucchini era limitato dall’applicazione di una norma comunitaria3.

Con una nota del 19 gennaio 1995, l’Avvocatura generale dello Stato riteneva la sentenza della Corte di appello corretta sotto il profilo della motivazione e dell’applicazione del diritto.

Per ottenere il pagamento dell’aiuto non versato, la Lucchini otteneva quindi dal Presidente del Tribunale di Roma un decreto ingiuntivo, in esecuzione del quale detta società riusciva ad ottenere anche il pignoramento di alcune autovetture di servizio del Ministero.

Inoltre, in esecuzione della sentenza della Corte d’Appello di Roma, il Ministero dava corso all’aiuto a favore della Lucchini mediante decreto, nel quale si precisava tuttavia che gli aiuti sarebbero potuti essere revocati in tutto o in parte “in caso di decisioni comunitarie sfavorevoli in merito alla concedibilità ed erogabilità delle agevolazioni finanziarie”.

Ragguagliata sull’intera vicenda, con nota del 16 settembre 1996 n. 5259, la Commissione affermava che le autorità italiane avevano violato il diritto comunitario, versando alla società Lucchini aiuti già dichiarati incompatibili con il mercato comune con una decisione del 1990. Con la medesima nota, le autorità italiane venivano invitate a recuperare gli aiuti in questione.

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Il Ministero decideva quindi la revoca dell’aiuto, ordinando alla Lucchini la restituzione. Quest’ultima proponeva ricorso al TAR contro il decreto di revoca del Ministero. Il giudice amministrativo annullava il decreto a seguito del passaggio in giudicato della sentenza della Corte d’Appello di Roma con cui il diritto all’esborso dell’aiuto era stato definitivamente accertato. La sentenza del TAR veniva poi impugnata dall’Avvocatura generale dello Stato per conto del Ministero dinanzi al Consiglio di Stato. In particolare, l’Avvocatura generale faceva valere il motivo per cui il diritto comunitario applicabile sarebbe dovuto prevalere sull’autorità di cosa giudicata della sentenza della Corte d’Appello di Roma.

Il Consiglio di Stato chiedeva quindi alla Corte di giustizia se in virtù del primato del diritto comunitario, rappresentato nel caso di specie dalla decisione della Commissione del 20 giugno 1990 e dalla nota n. 5259 del 1996, dovesse disapplicarsi l’art. 2909 c.c., relativo alla intangibilità del giudicato nazionale, oppure se, in virtù del principio per cui la decisione sul recupero dell’aiuto è regolata dal diritto comunitario ma la sua attuazione ed il relativo procedimento sono disciplinati in mancanza di norme comunitarie dal diritto nazionale, il procedimento di recupero non divenisse automaticamente impossibile in forza di una concreta decisione giudiziaria passata in giudicato ai sensi dell’art. 2909 c.c., che fa stato tra privato ed amministrazione obbligando quest’ultima a conformarvisi.

Nelle proprie conclusioni4, l’Avvocato generale ricorda l’importanza del principio della certezza del diritto e del rispetto della cosa giudicata negli ordinamenti degli Stati membri, soffermandosi anche sulla giurisprudenza comunitaria con la quale tale principio è stato riconosciuto come fondamentale anche per l’ordinamento comunitario5. Secondo l’Avvocato generale, peraltro, il caso Lucchini si differenzierebbe da quelli oggetto di tale giurisprudenza poiché in questa non veniva messo in discussione l’esercizio di una facoltà appartenente alla esclusiva competenza comunitaria6.

In seguito, egli ricorda gli obblighi dei giudici nazionali in materia di aiuti di Stato, rilevando come, nel caso di specie, detti giudici non abbiano in alcun modo tenuto conto delle norme comunitarie pertinenti7. Inoltre, sempre con riferimento alle circostanze del caso di specie, l’Avvocato generale sottolinea sia che il giudice nazionale quando interpreta il diritto interno non può comunquePage 642 violare la delimitazione delle competenze tra Comunità e Stati membri8, sia che nella materia degli aiuti di Stato, sebbene gli obblighi comunitari siano diretti principalmente agli Stati membri, i privati interessati hanno comunque la possibilità di tutelare adeguatamente le proprie ragioni nella fase amministrativa dinanzi alla Commissione ed in quella giurisdizionale dinanzi al giudice comunitario, e non sono tenuti a rivolgersi al giudice nazionale, che non è competente a giudicare sulla compatibilità dell’aiuto alla luce del diritto comunitario9.

L’Avvocato generale conclude pertanto nel senso che l’autorità di cosa giudicata della sentenza della Corte d’Appello non può costituire un ostacolo per il recupero di un aiuto erogato incompatibilmente con il diritto comunitario vigente10.

Nella sentenza in commento, respinta un’eccezione di irricevibilità delle questioni pregiudiziali sollevata dalla Lucchini, fondata sulla pretesa ipoteticità delle questioni e sulla asserita incompetenza della Corte ad interpretare l’art. 2909 c.c.11, la Corte ricorda anzitutto le competenze del giudice nazionale nella disciplina comunitaria degli aiuti di Stato12. A tale riguardo, secondo la Corte, da un lato, né il Tribunale civile né la Corte d’Appello di Roma erano in alcun modo competenti a pronunciarsi sulla compatibilità degli aiuti in questione o sulla validità della decisione della Commissione del 1990, dall’altro, non v’è traccia nella pronuncia di tali giudici della considerazione del problema della compatibilità con il diritto comunitario degli aiuti in questione13.

Nell’esaminare l’art. 2909 c.c., la Corte osserva che tale disposizione osta alla possibilità di dedurre nuovamente in una seconda controversia anche questioni che avrebbero potuto essere sollevate in una controversia precedente, senza però che ciò sia avvenuto. Così interpretata, tuttavia, la disposizione del codice civile produrrebbe effetti “che eccedono i limiti della competenza del giudice di cui trattasi, quali risultano dal diritto comunitario”, rendendo nella specie impossibile il recupero degli aiuti concessi in violazione del diritto comunitario14.

La Corte si sofferma quindi sul ruolo del giudice nazionale come giudice comunitario di diritto comune, ricordando sia che il giudice nazionale è chiamato ad interpretare il proprio diritto quanto più possibile in modo da consentire un’efficace applicazione del diritto comunitario, sia che il giudice nazionale chiamato ad applicare le norme comunitarie deve garantirne la piena efficaciaPage 643 disapplicando all’occorrenza, anche d’ufficio, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale15.

A tale proposito, la Corte ricorda che la valutazione della compatibilità con il mercato comune di misure di aiuto o di un regime di aiuti rientra nella competenza esclusiva della Commissione, la quale agisce sotto il controllo del giudice comunitario. Secondo la Corte, questo principio è vincolante nell’ordinamento giuridico nazionale in quanto corollario del primato del diritto comunitario16.

La Corte giunge quindi alla conclusione che “il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva”17.

@2. Il ruolo del giudice nazionale nella materia degli aiuti di Stato

2. Com’è noto, la legalità e la compatibilità dell’aiuto di Stato sono due nozioni distinte in diritto comunitario18. In particolare, dalla prassi amministrativa della Commissione e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia...

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