Considerazioni finali alla relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2008

AuthorGiovanni Maria Flick
PositionPresidente emerito della Corte costituzionale
Pages311-322

    Corte costituzionale, udienza straordinaria del 28 gennaio 2009.

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Signor Presidente della Repubblica, Signor Presidente del Senato, Signor Presidente della Camera dei Deputati, Signor Presidente del Consiglio, Autorità, Colleghi,

Enrico De Nicola, nella udienza inaugurale di questa Corte del 23 aprile 1956, rilevò, “con amara constatazione, che la nostra Costituzione è poco conosciuta anche da coloro i quali ne parlano con aria altezzosa di saccenti. Essa dovrebbe essere più divulgata tra tutti gli italiani: vi provveda chi ne ha facoltà e senza indugio, perché ‘troppo tardi’ sono due parole funeste non solo per i singoli ma anche per i popoli”. A sua volta, nel concludere in questo Palazzo la celebrazione del 60° anniversario della Costituzione della Repubblica italiana, il 29 febbraio 2008, Leopoldo Elia ha ricordato come – grazie, anche, ad una serie di trasformazioni normative, sociali e politiche intervenute nel corso degli anni ed attraverso l’opera di costante adeguamento realizzata dalla giurisprudenza di questa Corte – la Costituzione repubblicana abbia “dimostrato di possedere prudente elasticità e attitudine a ‘comprendere’ con i suoi principi, fenomeni non prevedibili dai costituenti: e tutto ciò senza perdere di significanza”.

Le parole di questi due protagonisti della nostra storia costituzionale ed istituzionale sembrano quasi tracciare l’incipit, la perdurante validità e l’evolversi della Carta fondamentale e della “sua” Corte. Da un lato, appare sterile continuare ad interrogarsi, quasi a cadenze fisse, sulla attualità della Costituzione – con il conseguente corollario di polemiche tra quanti auspicano una “riscrittura” della Carta e quanti ritengono invece sufficiente la sua “rilettura” – ove si consideri lo spirito “evolutivo” che, assai opportunamente, i Padri costituenti impressero nei suoi principi fondamentali. Da un altro lato, si registra un diffuso disinteresse, se non addirittura un’ignoranza, per ciò che rappresenta “oggi” la Costituzione della Repubblica e per cosa essa significhi nel sistema delle “regole”, nazionali e sovranazionali. Soltanto “conoscendo” è possibile maturare una consapevole opinione; e solo attraverso una opinione consapevole può determinarsi, attorno ad una determinata norma, principio o disposizione, quellaPage 312 generale condivisione per il diritto come valore che va al di là del “rango” della fonte che lo ha espresso.

La sensibilità verso la “storia” della nostra Costituzione e verso l’evolversi della giurisprudenza costituzionale continua a far registrare preoccupanti lacune: quasi si trattasse di tematiche riservate a pochi “addetti ai lavori” o intrise di tecnicismo tale da essere, per i più, sfuggenti o addirittura arcane. La verità è ben diversa: chiunque è in grado di comprendere il significato profondo di ciascuno dei diritti fondamentali enunciati nella prima parte della Costituzione; ma non a tutti è stato fornito un adeguato patrimonio conoscitivo per apprezzare se quei diritti siano stati in concreto realizzati o se, al contrario, qualche frammento di essi sia tuttora inattuato.

Parlo, evidentemente, non soltanto di informazione – il più delle volte adeguatamente soddisfatta dai professionisti del settore – ma, soprattutto, di “formazione”: solo creando una “cultura” della Costituzione è possibile far sì che la Carta – e lo spirito che essa esprime – diano vita a quello che è stato efficacemente definito il “diritto costituzionale vivente”. Allo stesso modo, solo una “cultura” dei diritti e delle libertà fondamentali – ormai da collocare in una dimensione quantomeno europea – può radicare sia la consapevolezza dei riflessi solidaristici che da essi derivano, sia la possibilità di estrapolare “nuove” categorie di valori, in grado di preservare i “nuovi” bisogni che la società civile incessantemente propone; e di individuare, infine, la portata che in tale cornice assume il tema dell’abuso del diritto.

Peraltro, le esperienze maturate dalla Corte durante l’anno appena trascorso e le linee di tendenza che da esse mi sembra possibile desumere, inducono riflessioni orientate a un cauto ottimismo.

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Un primo dato, senz’altro positivo, riguarda la diminuzione del numero dei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, la maggior parte dei quali – come è noto – concentrati sull’immunità riconosciuta ai parlamentari dall’art. 68, 1° co., Cost. In un passato per fortuna non più recentissimo, il contenzioso costituzionale si era a tal punto diffuso, da far correre alla Corte il rischio di trasformarsi in una sorta di improprio giudice “del fatto”; senza apporti di particolare significato alla giurisprudenza, ormai consolidata, sul tema della insindacabilità delle opinioni espresse extra moenia dai membri del Parlamento nazionale o delle assemblee regionali.

A questo riguardo, parrebbe ormai superata la fase delle più acute tensioni tra le Assemblee rappresentative e l’autorità giudiziaria, chiamata a celebrare giudizi in sede civile o penale su opinioni manifestate in varie sedi dai loro componenti. Sono diverse, a mio avviso, le concause che hanno determinato questo nuovo corso.

Da un lato, mi sembra giusto richiamare il contributo offerto dalla giurisprudenza di questa Corte, per bilanciare esigenze e garanzie contrapposte, non di rado prospettate dalle parti antagoniste in termini totalmente inconciliabili.

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Dall’altro lato – anche per effetto dei “paletti” introdotti da tale giurisprudenza – va registrata una più meditata valutazione dei limiti entro i quali deve operare la garanzia della insindacabilità: limiti – desidero ricordare – sui quali in alcune occasioni si è espressa con particolare incisività anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. D’altra parte, è significativa la circostanza che tanto i giudici quanto il Parlamento abbiano dimostrato – in una delicata materia di confine – un apprezzabile self restraint delle proprie prerogative costituzionali, dando vita ad un circuito virtuoso di leale collaborazione nei rapporti tra poteri dello Stato.

Un terzo ed ultimo elemento ha utilmente contribuito a ricondurre i conflitti di cui stiamo trattando entro un margine di “fisiologica patologia” (perché tale deve considerarsi, nella prospettiva della Costituzione, qualunque conflitto tra poteri dello Stato): la legge 20 giugno 2003, n. 140, recante, appunto, disposizioni di attuazione dell’art. 68 della Costituzione. La legge, ormai plasmata da una prolungata prassi applicativa e da un’approfondita elaborazione giurisprudenziale, sembra aver ricomposto dubbi e problematiche che in passato avevano contribuito non poco a generare un contenzioso negativo per la stessa immagine delle istituzioni coinvolte.

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Il tema dei conflitti tra politica e magistratura, tuttavia, non si risolve soltanto nell’ormai numericamente circoscritto ambito dei contrasti sulla applicazione dell’art. 68 della Costituzione. Un certo stato di tensione tra il potere chiamato ad esercitare la funzione legislativa e l’ordine giudiziario chiamato ad applicare le leggi è, per certi aspetti, un dato fisiologico ed ineludibile in qualsiasi democrazia moderna. La complessità dei fenomeni normativi, la pluralità delle fonti e le esigenze, sempre mutevoli, di una società in perenne evoluzione, finiscono per collocare su un crinale talvolta “concorrenziale” la legge positiva e la norma “vivente”. Da qui, i non rari casi di conflitti che il Parlamento o il Governo sollevano nei confronti dell’autorità giudiziaria e viceversa, su temi spesso di estrema rilevanza, quali il segreto di Stato o...

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