La Corte di giustizia torna a presidiare i confini del diritto comunitario. Osservazioni in calce alla sentenza C-176/03

AuthorAlessandra Mignolli
PositionRicercatore di Diritto internazionale nell’Università di Roma "La Sapienza"
Pages327-342

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@1. Premessa

1. Con la sentenza che mi accingo a commentare1 – che è stata definita “di importanza costituzionale”2 – la Corte di giustizia è tornata a pronunciarsi su un conflitto di competenze tra primo e terzo pilastro, dopo la celebre sentenza del 1998 sui visti di transito aeroportuali3. Già in quell’occasione, la Corte aveva fatto comprendere che la sua prima preoccupazione di fronte alla struttura dell’Unione quale era scaturita dal Trattato di Maastricht era quella di proteggere il territorio del diritto comunitario da possibili invasioni di competenza provenienti dai pilastri intergovernativi. La pronuncia oggetto di questa nota non fa che confermare tale orientamento della Corte e si potrebbe anzi dire che essa non si limita più a presidiare il territorio comunitario, ma effettua anche qualche sortita in attacco.

Quello che vorrei fin da ora evidenziare, e che sarà oggetto più ampiamente delle pagine che seguono, è proprio l’impressione che la Corte voglia con la sua giurisprudenza di portata costituzionale tornare ad assumere quel ruolo di punta nel processo di integrazione europea che essa aveva rivestito lungo tutto l’arco dei primi 20 anni di vita delle Comunità.

All’epoca essa, con alcune fondamentali sentenze che apparvero allora rivoluzionarie, riuscì nella difficile impresa di plasmare l’ordinamento giuridico comunitario. Non a caso, tale opera creatrice ebbe i suoi momenti più alti proprio in corrispondenza di una fase di crisi dell’integrazione, quando gli Stati membri,Page 328 afflitti dalla congiuntura negativa dell’economia mondiale, ponevano in dubbio la stessa sopravvivenza delle Comunità4. Oggi, in una fase forse altrettanto delicata del processo di integrazione, quando il Trattato costituzionale è in bilico, bocciato dal voto negativo di due Paesi fondatori, quando l’Europa soffre a causa dei costi e delle disomogeneità portati dall’allargamento, la Corte di giustizia torna ad avvertire quella responsabilità e sviluppa una giurisprudenza che ha come filo conduttore quello di unificare l’ordinamento europeo, interpretandolo in modo quanto più possibile unitario. Tale approccio comporta l’applicazione agli atti del terzo pilastro dei criteri interpretativi consolidati nel pilastro comunitario e l’estensione della portata del diritto comunitario, fino a spostarne in avanti i confini, per dimostrare che non è facile tracciare confini netti tra settori e categorie di competenze, e forse neppure opportuno.

Se la sentenza del 1998 sui visti di transito aeroportuale era innovativa sotto il profilo della ricevibilità, in quanto in quel caso la Corte aveva fatto un uso che a qualcuno è parso spregiudicato del combinato disposto degli articoli L e M del Trattato di Maastricht per dichiararsi competente a conoscere di un ricorso per annullamento di un atto del terzo pilastro, la sentenza che qui commentiamo assume rilievo invece sotto il profilo del merito e dei principi che la Corte ha applicato nella definizione dei rapporti tra i pilastri dell’Unione. Infatti, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, la Corte dispone ormai di sindacato giurisdizionale relativamente agli atti del terzo pilastro, alle condizioni ed entro i limiti stabiliti dall’art. 35 TUE5.

@2. La sentenza sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale: i fatti

2. La sentenza del 13 settembre 2005, Commissione c. Consiglio, è stata pronunciata su un ricorso presentato dalla Commissione ai sensi dell’art. 35 TUE e avente ad oggetto l’annullamento della decisione quadro 2003/80/GAI del 27 gennaio 20036, relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale.

Occorre dare brevemente conto dei fatti all’origine del ricorso, in quanto utili a chiarire il contesto in cui è intervenuta la pronuncia della Corte. La Commissione si era da tempo espressa contro l’intenzione del Consiglio di adottare una decisione quadro in materia di reati ambientali e relative sanzioni penali. A giudizio della Commissione, infatti, la corretta base giuridica per perseguire l’obiettivo di rendere maggiormente effettiva la tutela dell’ambiente attraverso l’assoggettamento a sanzioni penali delle violazioni più gravi, avrebbe dovuto essere l’art. 175, par. 1 TCE, ai sensi del quale il Consiglio, agendo secondo la procedura di codecisione e sentiti il Comitato economico e sociale ePage 329 il Comitato delle regioni, può intraprendere le azioni necessarie per realizzare gli obiettivi dell’art. 174 in tema di politica ambientale. Nel 2001 la Commissione aveva presentato una proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale, fondata per l’appunto sulla base giuridica dell’art. 175, par. 17. Il Consiglio, nonostante anche il Parlamento europeo condividesse l’avviso della Commissione e suggerisse al più di adottare una decisione quadro quale strumento complementare per i soli aspetti più specificamente relativi alla cooperazione giudiziaria penale, preferì non adottare affatto la direttiva e adottare invece solo una decisione quadro indicando come base giuridica gli articoli 29, 31, par. 1, lett. e) e 34, par. 2, lett. b) TUE. Nella decisione quadro, come dichiarato nel 5° considerando, il Consiglio ha “ritenuto opportuno incorporare ….varie norme sostanziali contenute nella proposta di direttiva”8.

L’atto controverso, in particolare, definiva, agli articoli 2-7, una serie di comportamenti contro l’ambiente che gli Stati avrebbero dovuto prevedere come reati e perseguire penalmente nel proprio diritto interno – se posti in essere intenzionalmente o con negligenza – e in relazione ai quali essi erano tenuti a introdurre sanzioni penali “effettive, proporzionate e dissuasive”, tra cui, “per lo meno nei casi più gravi, pene privative della libertà che possono comportare l’estradizione”. I restanti articoli riguardavano la competenza giurisdizionale per territorio e la cooperazione giudiziaria, in particolare l’estradizione e l’azione penale in caso di mancata estradizione del cittadino.

Secondo la Commissione, sostenuta dal Parlamento, la decisione quadro, almeno nella parte che definisce i reati ambientali, ovvero gli articoli 1-7 della stessa, avrebbe dovuto rientrare nelle competenze comunitarie in materia ambientale, quali enunciate agli articoli 3, par. 1, lett. l) e 174-176 TCE. In sostanza, secondo la Commissione, il legislatore comunitario è competente, ove necessario, ad imporre agli Stati membri l’obbligo di imporre sanzioni penali per garantire l’efficacia del diritto comunitario e il raggiungimento degli scopi della Comunità; nel caso di specie, l’armonizzazione delle legislazioni penali nazionali, in particolare degli elementi che costituiscono reati contro l’ambiente, costituirebbe uno strumento al servizio della politica comunitaria dell’ambiente.

Il Consiglio, sostenuto da ben 11 Stati membri intervenienti, a conferma della rilevanza del caso, affermava al contrario che la Comunità non dispone di alcuna competenza in materia di armonizzazione del diritto penale degli Stati membri. In particolare, secondo il Consiglio, non solo non esiste alcuna attribuzione espressa di competenza, ma, tenuto conto della notevole rilevanza del diritto penale per la sovranità degli Stati membri, non potrebbe ammettersi per tale competenza un’attribuzione implicita derivante dall’attribuzione di competenze sostanziali quali quelle di cui all’art. 175 TCE.

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La questione posta all’attenzione della Corte era quella di tracciare i confini della competenza comunitaria in un’area grigia, costituita da misure, certamente comportanti l’armonizzazione delle legislazioni penali degli Stati membri, ma aventi lo scopo di rendere effettive le norme comunitarie in materia di tutela dell’ambiente, realizzando così uno degli obiettivi della Comunità – obiettivo peraltro, quello di un elevato livello di tutela dell’ambiente come enunciato dall’art. 174 TCE – che permea di sé in modo trasversale tutte le politiche e tutte le attività della Comunità (e dell’Unione) in virtù del principio di integrazione di cui all’art. 6 TCE. Il problema era di stabilire se il legislatore comunitario disponesse del potere di imporre agli Stati membri l’uso dello strumento penale al fine di perseguire obiettivi comunitari e di rendere effettivo l’enforcement del diritto comunitario. Prima di svolgere qualche ulteriore considerazione su questo punto, è bene seguire il ragionamento della Corte.

La Corte si fonda in primo luogo sull’art. 47 TUE, corroborato dall’art. 29, comma 1 TUE, e ribadisce che essa “è tenuta a vigilare affinché gli atti che il Consiglio considera rientrare nel … titolo VI non sconfinino nelle competenze che le disposizioni del Trattato CE attribuiscono alla Comunità” (punto 39).

Il secondo elemento dell’argomentazione è costituito dalla costante giurisprudenza della stessa Corte in materia di scelta della base giuridica di un atto, scelta che deve basarsi su “elementi oggettivi, suscettibili di sindacato giurisdizionale, tra i quali, in particolare, lo scopo e il contenuto dell’atto” (punto 45). Ora, secondo l’analisi della Corte, l’obiettivo perseguito attraverso la decisione quadro è la protezione dell’ambiente. E la protezione dell’ambiente costituisce senz’altro uno degli obiettivi fondamentali della Comunità (articoli 3, par. 1, lett. l) e 6 TCE, dai quali la Corte ricava il “carattere trasversale e fondamentale di questo obiettivo”). Quanto al contenuto, la Corte non nega che l’atto controverso rechi una “parziale armonizzazione delle legislazioni penali degli Stati membri” (punto 47); “quest’ultima constatazione – prosegue la Corte – non può tuttavia impedire al legislatore comunitario, allorché l’applicazione di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive da parte delle competenti autorità nazionali costituisce una misura indispensabile di lotta contro violazioni ambientali gravi, di adottare provvedimenti in...

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