L’obbligo di interpretazione conforme “sconfina” nel terzo pilastro: note a margine della sentenza Pupino

AuthorFrancesco Cherubini
PositionDottorando nell’Università di Napoli "Federico II"
Pages157-175

Page 157

@1. La sentenza Pupino

1. Con la sentenza in commento1, “per la prima volta”2 la Corte di giustizia si è pronunciata, in via pregiudiziale, sull’interpretazione di una decisione quadro. Si tratta della decisione quadro 2001/220/GAI, relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale3. Prima di analizzare i passaggi del ragionamento seguito dalla Corte, occorre riassumere in breve i fatti in causa. La signora Maria Pupino, insegnante di scuola materna, era indagata dalla Procura dellaPage 158 Repubblica presso il Tribunale di Firenze in merito alla commissione dei reati di abuso dei mezzi di disciplina e lesioni aggravate. L’insegnante avrebbe inflitto l’uno e le altre ad alcuni dei propri alunni, tutti di età inferiore ai cinque anni all’epoca dei fatti. Nel corso del procedimento il pubblico ministero ha chiesto al giudice per le indagini preliminari l’acquisizione delle testimonianze delle persone offese tramite il meccanismo dell’incidente probatorio e secondo le modalità previste dall’art. 398, comma 5-bis, c.p.p.4. Non ammettendo le norme di rito tale possibilità5, il giudice si è domandato se esse dovessero essere interpretate alla luce della decisione quadro suddetta6. Questa, infatti, impone agli Stati membri l’obbligo di provvedere, entro il termine, già allora scaduto, del 22 marzo 2002, ad adeguare i rispettivi ordinamenti ad alcuni principi di garanzia nei confronti della vittima nel procedimento penale, contenuti nella stessa decisione quadro. Tra questi, in particolare, il principio, enunciato dall’art. 8, secondo cui, “ove sia necessario proteggere le vittime, in particolare le più vulnerabili, dalle conseguenze della loro deposizione in udienza pubblica, ciascuno Stato membro garantisce alla vittima la facoltà, in base ad una decisione del giudice, di rendere testimonianza in condizioni che consentano di conseguire tale obiettivo e che siano compatibili con i principi fondamentali del proprio ordinamento”7. Il giudice a quo, in altre parole, di fronte alla maggiore ampiezza delle condizioni previste dalla decisione quadro rispetto alle norme di rito interne, ha domandato alla Corte se (e a quali condizioni) le seconde dovessero essere lettePage 159 alla luce delle prime. La questione pregiudiziale schiudeva così le porte dei giudici di Lussemburgo ad una serie di interrogativi complessi e per la prima volta formulati. Essi in definitiva investono l’esistenza dell’obbligo di interpretazione conforme rispetto alle decisioni quadro.

La Corte risponde in modo affermativo alla domanda contenuta nell’ordinanza di rinvio, argomentando sulla base dei passaggi che ora si esporranno. Essa innanzitutto si dichiara competente, in linea di principio, a pronunciarsi sulla questione pregiudiziale, giusta la sussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 35 TUE e delle condizioni di ricevibilità della domanda8. In merito alla questione principale, la soluzione affermativa prende le mosse dal presupposto che le decisioni quadro abbiano lo stesso carattere vincolante delle direttive. La Corte muove dalla formulazione dell’art. 34, par. 2, lett. b) TUE, “strettamente ispirata”9, da quanto si legge nella sentenza, a quella dell’art. 249, comma 3 TCE. Il carattere vincolante delle direttive, dunque, si “trasmetterebbe” alle decisioni quadro, per le quali tale carattere è formulato “in termini identici a quelli dell’art. 249, terzo comma, CE”10. Tale circostanza – aggiunge succintamente la Corte – “comporta, in capo alle autorità nazionali, ed in particolare ai giudici nazionali, un obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale”11.

La sentenza respinge le obiezioni sollevate dai governi britannico e svedese, secondo i quali un paragone con il pilastro comunitario sarebbe fuori luogo in un contesto dal marcato carattere intergovernativo come quello offerto dal titolo VI. Secondo la Corte, infatti, “è perfettamente comprensibile che gli autori delPage 160 Trattato sull’Unione europea abbiano ritenuto utile prevedere, nell’ambito del titolo VI di tale Trattato, il ricorso a strumenti giuridici che comportano effetti analoghi a quelli previsti dal Trattato CE, al fine di contribuire efficacemente al perseguimento degli obiettivi dell’Unione”12. D’altra parte – soggiunge – se diversamente fosse, la stessa competenza pregiudiziale nel titolo VI “sarebbe privata dell’aspetto essenziale del suo effetto utile”13. In definitiva, la Corte ritiene che, per le decisioni quadro, si possa procedere analogamente a quanto fatto per le direttive nel pilastro comunitario14. E infatti il passaggio successivo consiste nel trovare all’obbligo in discorso un fondamento identico a quello che era stato individuato per le direttive: la Corte, rispondendo alle eccezioni sollevate dai governi italiano e britannico, afferma che, nonostante l’inesistenza nel TUE di una norma analoga a quella esplicitata nell’art. 10 TCE, un obbligo di leale collaborazione sussista comunque. Esso discenderebbe sia da una lettura sistematica del titolo VI15, sia dall’art. 1 TUE il quale, formulando la missione dell’Unione, presuppone che, per adempierla, gli Stati collaborino, principalmente, con le istituzioni europee.

Trovato dunque un fondamento all’obbligo di interpretazione conforme rispetto alle norme contenute nelle decisioni quadro, la Corte, su sollecitazione del governo olandese, esamina il problema se, nel caso in giudizio, il suddetto obbligo superi i limiti cui la giurisprudenza comunitaria lo ha condizionato. Nella fattispecie, la Corte anzitutto esclude che l’obbligo in questione possa violare il principio dell’irretroattività della legge: in particolare, di quel suo corollario in base al quale detto obbligo non “possa condurre a determinare o ad aggravare […] la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle […] disposizioni”16 di una decisione quadro. La Corte afferma infatti che il caso sottopostole verte sullo svolgimento del procedimento e sulle modalità di assunzione della prova, non venendo in rilievo la portata della responsabilità penale dell’indagata. In secondo luogo, essa esclude pure che l’obbligo di interpretazione conforme possa, nella fattispecie, condurre ad un risultato contra legem. InPage 161 proposito, la sentenza richiama le conclusioni dell’Avvocato generale17, secondo cui vi sarebbero buoni margini per giungere agli obiettivi fissati nella decisione quadro senza stravolgere la portata delle norme interne18. Nel merito, la Corte conclude che queste ultime debbano essere interpretate nel senso di consentire al giudice nazionale “di autorizzare bambini in età infantile che, come nella causa principale, sostengano di essere stati vittime di maltrattamenti a rendere la loro deposizione secondo modalità che permettano di garantire a tali bambini un livello di tutela adeguato, ad esempio al di fuori dell’udienza e prima della tenuta di quest’ultima”19.

@2. L’obbligo di interpretazione conforme tra diritto internazionale e diritto comunitario: a) le differenze

2. L’obbligo di interpretazione conforme non costituisce una novità assoluta nel panorama del diritto internazionale: da tempo, infatti, la maggior parte delle corti nazionali, in conformità al principio pacta sunt servanda, fa ricorso a que-Page 162sto criterio ermeneutico per scongiurare un possibile conflitto tra norme interne e obblighi internazionali dello Stato20. Ove la norma interna si presti a diverse interpretazioni, infatti, deve essere scelta quella che consente il rispetto degli obblighi internazionali, dovendosi presumere la volontà dello Stato di assolverli21. In altre parole, l’obbligo di interpretazione conforme risolve sul piano ermeneutico un conflitto tra norme. Esso presenta l’indubbio vantaggio di assicurare la prevalenza degli obblighi internazionali dello Stato senza che il giudice debba attendere l’intervento della Corte costituzionale o l’abrogazione ad opera del legislatore22. L’obbligo in parola è tuttavia limitato sotto vari profili: è ammesso solo ove la norma interna abbia un margine di incertezza ed è escluso per le norme internazionali non recepite23. Si tratta di due condizioni fisiologiche: con la prima si intende, infatti, escludere che l’interpretazione conforme possa risolvere un conflitto insanabile tra norme; con l’altra condizione si esprime una caratteristica propria della nozione di antinomia normativa, la quale non può che sussistere tra norme appartenenti allo stesso ordinamento24. Per quanto concerne l’Italia, questa seconda condizione limita l’obbligo in discorso alle norme con-Page 163suetudinarie, cui rinvia l’art. 10 Cost., e alle norme contenute in trattati e in atti obbligatori di organizzazioni internazionali recepite tramite i consolidati meccanismi di adattamento.

Com’è noto, la necessità di garantire la prevalenza del diritto comunitario è stata perseguita dalla Corte di giustizia tramite una strada diversa. Essa non solo ha affermato il principio del primato25, ma soprattutto l’obbligo dei giudici nazionali di disapplicare direttamente la norma interna confliggente26. In ciò, evidentemente, si estrinseca un essenziale aspetto della differente penetrazione delle norme comunitarie rispetto a quelle internazionali. Tuttavia, non tutte le norme comunitarie sono dotate di questa caratteristica: in particolare, ai giudici interni resterebbe preclusa la possibilità di far prevalere le norme non direttamente applicabili e/o prive dell’effetto diretto27. Il meccanismo che la Corte ha allora utilizzato per garantire la piena efficacia delle norme comunitarie è stato quello dell’interpretazione conforme, affermato per la prima volta nella sentenza Von Colson28. In essa l’obbligo in parola veniva riconosciuto limitatamente allaPage 164 “legge nazionale espressamente adottata per l’attuazione della direttiva”29: questa è la ragione per cui, dal momento che un identico meccanismo operava rispetto alle norme (recepite) del diritto internazionale, la suddetta...

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