Il “terzo pilastro” dell’Unione europea tra buona fede e leale collaborazione

AuthorPatrizia De Pasquale
PositionStraordinario di Diritto dell’Unione europea nell’Università LUM "Jean Monnet" di Casamassima (Bari)
Pages431-449

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@1. Premessa

1. L’estensione di principi e regole del primo pilastro del Trattato UE al settore della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (terzo pilastro) si è venuta consolidando per ragioni “naturali”. Invero, i giudici comunitari così hanno ritenuto la proiezione esterna di taluni fondamentali concetti comunitari al fine di colmare le evidenti lacune nel sistema del terzo pilastro e, quindi, di trovare soluzioni idonee in un settore tanto sensibile per i valori in gioco come quello penale. Il riconoscimento formale della mutazione di principi e norme di diritto comunitario, però, ha creato e crea non pochi problemi in termini dogmatici, stante le numerose peculiarità dei due ambiti giuridici1.

La questione si presenta particolarmente complessa, giacché, da un lato, l’ordinamento comunitario e quello dell’Unione europea configurano due concezioni e realizzazioni della dimensione giuridica abbastanza diverse, per di più da perseguirsi con due metodi distinti. Dall’altro lato, va notato che, da tempo, si è attenuata la rigidità delle vecchie confinazioni e il sistema normativo del terzo pilastro oramai rappresenta il fecondo terreno di osmosi tra due pianeti giuridici2. In quest’ottica si colloca il Trattato di riforma, firmato a Lisbona ilPage 432 13 dicembre 2007, che, come noto, prevede l’abolizione dei tre pilastri, proprio per rafforzare l’omogeneità del sistema, pur mantenendo in piedi tre diverse procedure, in particolare per la politica estera e di sicurezza che resta ancorata ad uno scenario internazionalistico ben distinto3.

In sostanza, seppure il percorso d’integrazione nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale non sia privo di analogie con quello seguito – grazie all’opera dei giudici comunitari ed alla volontà degli Stati membri – a proposito del Trattato CE, non è possibile concludere per un’estensione automatica dei caratteri dell’ordinamento comunitario al terzo pilastro. Sembra piuttosto necessario un giusto bilanciamento tra l’autonomia e la vocazione intergovernativa del terzo pilastro e l’esigenza di estendere ad esso istituti e regole già validamente sperimentate nel processo d’integrazione comunitaria.

Proprio in tal senso sembra oramai orientata la Corte di giustizia che, in numerose pronunce, ha adoperato principi e regole del pilastro comunitario per risolvere controversie relative al terzo pilastro, per poi giungere ad affermare l’autonomia di quest’ultimo sistema giuridico4.

Le soluzioni a cui è pervenuto il giudice comunitario – come si dirà meglio in seguito – vanno spiegate (e talvolta giustificate) alla luce delle particolari esigenze delle fattispecie sottoposte al suo esame, ciononostante esse segnano un percorso evolutivo che sembra diretto ad una comunitarizzazione del terzo pilastro.

Va notato che un’accelerazione nella direzione indicata è stata facilitata dall’applicazione in tale settore del principio di leale cooperazione, costante-Page 433mente utilizzato dalla Corte proprio per ricostruire effetti giuridici non immediatamente desumibili dalla lettera delle disposizioni convenzionali.

Il presente lavoro, pertanto, si pone l’obiettivo di valutare la validità di tale operazione e di esaminarne le conseguenze, al fine di chiarire il reale significato e valore del principio di leale collaborazione nel terzo pilastro e, in prospettiva, di delineare il ruolo che esso sarà chiamato a giocare qualora il Trattato di Lisbona entrasse in vigore.

@2. Il principio di leale collaborazione nell’ordinamento comunitario

2. È opportuno rammentare subito che il principio di leale collaborazione, non richiamato espressamente nel suo nomen juris in alcuna disposizione di diritto comunitario, è stato elaborato in via giurisprudenziale con riferimento all’art. 10 TCE. Per tal via esso è divenuto uno dei cardini fondamentali del sistema comunitario, nonché un principio strutturale per il buon funzionamento dell’organizzazione ed il raggiungimento degli obiettivi stabiliti, perseguibili unicamente se fra tutte le parti coinvolte si fosse instaurato un reticolo di rapporti basato su una corretta ed adeguata collaborazione5.

Infatti, da tempo sono stati superati i limiti insiti in una prima superficiale lettura della disposizione secondo cui il contenuto dell’art. 10 TCE non sarebbe stato molto difforme dal tradizionale obbligo di diritto internazionale (pacta sunt servanda) che impone alle parti contraenti di un trattato di rispettare gli impegni assunti e di dare la possibilità alle eventuali istituzioni create in forza del mede-Page 434simo trattato di adempiere alla loro missione6. Poiché una simile interpretazione avrebbe conferito all’articolo in esame il significato di ribadire inutilmente che “gli obblighi sono obbligatori”, la giurisprudenza gli ha attribuito, come noto, un ruolo di rilievo per garantire l’effettività, la coerenza e la completezza del sistema istituito dal Trattato7. Più in chiaro, l’art. 10 TCE è stato utilizzato per affermare che ogni disposizione del Trattato va interpretata e applicata in modo funzionale al raggiungimento delle sue finalità. E, in tale ottica è stato ritenuto che il principio di leale collaborazione costituisce un principio strutturale dell’ordinamento giuridico comunitario che direttamente o indirettamente, in via esclusiva o incidentale, vincola l’esercizio delle competenze comunitarie e nazionali al rispetto della solidarietà, della cooperazione, della buona fede e della lealtà comunitaria.

Invero, tale disposizione è stata la chiave di volta di fondamentali passaggi della giurisprudenza comunitaria, con riferimento a contesti completamente diversi. La Corte di giustizia ha individuato, quindi, un obbligo generale di cooperazione “il cui contenuto dipende, di volta in volta, dalle disposizioni del Trattato o dai principi che si desumono dalla sua struttura complessiva”8.

Va pure notato che la norma in parola è stata ritenuta fondamento di una specifica obbligazione giuridica e che gli sviluppi della prassi ne hanno rilevato altresì un ruolo autonomo di parametro di legittimità9. Ed è importante sottolineare che il dovere di leale collaborazione costituisce il giusto corollario di principi cardine come quello del primato e dell’effetto diretto e lo strumento più adeguato per rispondere alle mutate esigenze del processo d’integrazione che hanno richiesto un sincero dovere di lealtà degli Stati membri. In tal modo, alle autorità nazionali è affidato il compito di garantire la perfetta affermazione di una struttura giuridica peculiare che accanto agli Stati riconosce diritti e doveri in capo agli individui.

Dal principio di leale cooperazione deriva, anzitutto, un duplice obbligo in capo agli Stati membri: quello di assumere tutti i comportamenti necessari al perseguimento degli obiettivi comuni predefiniti e quello di astenersi da comportamenti o dall’emanare atti che ne possano pregiudicare il raggiungimento. APage 435 ben guardare, però, è possibile scomporre entrambi i doveri in obblighi di profilo orizzontale, obblighi di profilo verticale ed obblighi di profilo trasversale10. Ciò sta a significare, in primo luogo, che non soltanto gli Stati sono chiamati a collaborare tra loro per assicurare la realizzazione degli obiettivi comunitari, ma che lo sono nella stessa misura le istituzioni comunitarie (profilo orizzontale). Inoltre, i due livelli, quello comunitario e quello nazionale, devono lealmente cooperare, perché una fitta ed efficace rete di relazioni e di scambi di informazioni non vincolata da coerenze a modelli rigidi è fondamentale per la ricerca di un equilibrio tra esigenze non sempre in sintonia con gli obiettivi prefissati (profilo verticale). Nel dettaglio, questo tipo di cooperazione investe sia le modalità attraverso le quali gli Stati membri e più precisamente le loro autorità partecipano al processo di formazione delle decisioni dell’Unione europea (profilo verticale ascendente); sia i processi di recepimento di norme comunitarie non complete e, più in generale, i comportamenti e gli atti da porre in essere per la puntuale realizzazione degli scopi del Trattato (profilo verticale discendente). Quanto alle istituzioni dell’Unione europea, su di esse grava l’obbligo di prestare la massima collaborazione agli Stati membri nell’adempimento dei loro doveri, in entrambe le fasi (profilo verticale ascendente e discendente)11.

Infine, non va sottovalutata l’importanza di rapporti trasversali tra istituzioni ed autorità collocate a livelli diversi e con funzioni diverse (ad esempio autorità amministrative ed autorità giurisdizionali) per la realizzazione delle politiche d’integrazione (profilo trasversale).

@3. Differenze e similitudini tra il principio di buona fede e quello di leale collaborazione

3. A questo punto è necessario domandarsi se il principio in parola possa essere legittimamente applicato nel più vasto ambito dell’Unione europea e, soprattutto, se possa esservi trasposto in tutte le sfaccettature attribuitegli dalla Corte di giustizia.

In limine, conviene ribadire che nel Trattato UE è assente una disposizione ad hoc sul principio di leale collaborazione, né è possibile rinvenire un obbligo di eguale contenuto in una qualsiasi delle disposizioni convenzionali. Va pure considerato che il carattere intergovernativo del terzo pilastro assegna un peso rilevante alla natura pattizia del Trattato UE, di modo che a tale settore vanno applicati in primo luogo i principi e le categorie proprie del diritto internazionale. D’altronde, è generalmente riconosciuto che l’Unione europea affonda proprio nel diritto internazionale le sue radici e con esso mantiene indissolubili legami genetici e funzionali12. Peraltro, la cooperazione che caratterizza tale set-Page 436tore, sin dalla sua denominazione, dimostra proprio la natura incompiuta del processo di integrazione in talune materie particolarmente delicate, rispetto alle quali la cooperazione tra gli Stati...

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