Genesi e sviluppi degli apparati amministrativi dell'Alta Autorità della CECA

AuthorAlessandro Isoni
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@1. Le funzioni dell’Alta Autorità della CECA

Due giorni dopo la dichiarazione Schuman, in un articolo apparso sulla prima pagina del “Corriere della Sera”, Libero Lenti si interrogava sui reali obiettivi della proposta francese di creare un pool europeo del carbone e dell’acciaio. Accanto alle prevedibili perplessità, derivanti soprattutto dal timore che i francesi nutrissero ambizioni di supremazia sul continente europeo, l’economista poneva in luce un elemento in un certo senso paradossale della proposta francese, vale a dire la possibilità che l’intesa tra i paesi europei, mutuata sul modello dei cartelli creati nel periodo precedente la seconda guerra mondiale, potesse avere invece effetti anticartellistici, raggiungendo effettivamente gli obiettivi illustrati nel Salone dell’Orologio del Quay d’Orsay dal ministro degli Affari Esteri francese1.

L’eco di queste perplessità non fu sopita nemmeno dall’effettiva configurazione delle funzioni assegnate alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio e, in particolare, quelle attribuite alla sua istituzione più originale, l’Alta Autorità, se è vero che Paolo Emilio Taviani, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri, nel corso della seduta del Senato del 15 marzo 1952 per la ratifica del trattato CECA, dovette replicare alle numerose accuse sollevate dall’op-1 Si fa riferimento all’articolo di L. Lenti, Un cartello anticartello, apparso su “Il Corriere della Sera” dell’11 maggio 1950.

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posizione socialcomunista nei confronti dell’impianto complessivo del piano Schuman, ritenuto appunto foriero di un ritorno ai cartelli anteguerra e, soprattutto, animato da un’impostazione nettamente dirigista2. Tralasciando le considerazioni svolte da Taviani, il quale riteneva l’adozione di misure dirigiste l’unico argine sufficientemente valido ad evitare “lo slittamento del piano, concepito come anticartello, verso forme sia pure larvatamente cartellistiche”, analoghe preoccupazioni emergevano nelle relazioni preparate dalle associazioni degli industriali di alcuni paesi europei, dove era molto avvertito il rischio di “tomber dans un dirigisme international complet, le quel n’est plus souhaitable qu’un dirigisme purement national”3.

Ma quali erano le ragioni che inducevano molti osservatori, sia a destra sia a sinistra, a scagliarsi contro il piano Schuman? Quanto erano giustificati i timori di un’impostazione dirigista del trattato CECA e, soprattutto, quali significati si attribuivano al dirigismo, sì da renderlo tanto deprecabile?

Se ci si attiene all’esame puntuale degli obiettivi fissati nel trattato, è possibile riscontrare come, accanto ai compiti di garanzia e di controllo del corretto funzionamento del mercato, la futura azione comunitaria si sarebbe caratterizzata anche per i notevoli poteri di intervento pubblico sull’economia e le imprese. Analizzando le disposizioni del trattato emerge chiaramente, da un lato, la previsione di misure improntate ad una visione liberista dell’economia – come la libera circolazione dei prodotti, la non discriminazione tra operatori economici e tutta la gamma di misure volte a disciplinare la concorrenza – e, dall’altro, l’attribuzione di poteri ispirati ad un dirigismo piuttosto accentuato.

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La dicotomia tra queste due visioni si avverte sin dall’art. 2 del trattato, che al comma 2 assegnava alla Comunità il compito di attuare condizioni capaci di assicurare “per se stesse” la razionalità dello sviluppo produttivo ma, al contempo “tutelando la continuità dell’occupazione ed evitando di provocare, nelle economie degli Stati membri, turbamenti fondamentali e persistenti”. I compiti e i poteri dell’amministrazione comunitaria, dunque, non si limitavano alla sola funzione di controllo sul corretto funzionamento del mercato comune, ma prevedevano anche una serie di interventi tesi a correggere alcune sue dinamiche. Infatti, il fine ultimo dell’azione comunitaria non doveva essere solamente l’istituzione del mercato comune, secondo il libero gioco della domanda e dell’offerta, ma doveva viceversa indirizzarsi verso uno sviluppo armonico e capace di non creare scompensi negli altri settori dell’economia, che dovevano trovare nella disponibilità di carbone e acciaio a prezzi competitivi la leva su cui basare il proprio sviluppo.

La consapevolezza della rilevanza di un equilibrato sviluppo del mercato comune dei prodotti carbosiderurgici sugli altri settori produttivi, infatti, aveva indotto gli estensori del trattato a prevedere diversi tipi di intervento comunitario, esemplificati dalle funzioni di indirizzo e di programmazione, da quelle di conformazione e, infine, dalle funzioni di ausilio ed incentivazione4.

Ad ogni modo, la presenza di elementi riconducibili al dirigismo economico suscitava inquietudini per diverse ragioni, senza che tuttavia venisse colto fino in fondo il significato più immediato della presunta impostazione dirigista del trattato CECA, il quale, secondo quanto postulato nell’art. 2, non mirava a perpetuare il precedente quadro economico, caratterizzato dalla presenza di cartelli internazionali tendenti “alla ripartizione e allo sfruttamento dei mercati nazionali attraverso pratiche restrittive”, bensì a rovesciarlo, attraverso la progressiva fusione dei mercati nazionali, in modo da assicurare, “spontaneamente la ripartizione più razionale della produzione al livello della produttività più elevato”.

La ragione più autentica del paradosso posto a fondamento ideologico del trattato istitutivo della CECA risiedeva proprio in

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tale aspetto: in assenza di un mercato comune per i prodotti carbosiderurgici si rendeva necessario procedere a crearlo artificialmente, giungendo sino al punto di impostare una gamma di misure dal netto impianto dirigistico, utilizzando dunque degli strumenti giuridici e politici che erano stati concepiti in un contesto economico e per delle finalità che, sotto molti aspetti, erano opposte rispetto a quelle fissate dal piano Schuman.

Questa interpretazione, che pone in evidenza la straordinaria operazione politica ed economica promossa dalla CECA, concretatasi nella spregiudicata torsione di strumenti ed istituti dirigisti per finalità liberali, ha il pregio di far emergere anche un altro aspetto. Spesso, infatti, si tende a non esaminare su quali premesse teoriche si sia basato il mercato comune, dando dunque per scontato che quest’ultimo rappresenti una dimensione naturale e, per certi aspetti, astorica. Viceversa, il mercato non è un’entità determinata a priori, bensì riflette le caratteristiche e i tratti che le scelte di politica economica hanno contribuito a delineare nel corso del tempo5.

In tal senso, il piano Schuman offre la possibilità di riflettere su come il mercato comune dei prodotti carbosiderurgici, vera e propria creazione artificiale, sia riuscito a conseguire i suoi obiettivi anche in ragione della sua ispirazione ideologica e della ripresa di strutture amministrative sperimentate nel corso dei decenni precedenti.

@2. I precedenti amministrativi

Il ruolo assegnato dal trattato all’Alta Autorità tendeva a collocare questa istituzione al centro del processo decisionale comunitario, nel ruolo che potremmo definire di motore o, con un’altra metafora, di custode dell’interesse comunitario. Questa assoluta centralità dell’istituzione sovranazionale, ritenuta indispensabile per l’effettiva apertura e funzionamento del mercato comune, fu resa possibile per diverse ragioni. Tra le più importanti vi era, senza dubbio, la limitata invasività dell’azione dell’Alta Autorità, che

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non incideva in misura rilevante sui poteri degli Stati nazionali, oltre alla possibilità di poter attingere ad un bagaglio cospicuo di esperienze di intervento dei pubblici poteri nell’economia, condizione ormai ritenuta normale dalla maggior parte delle forze politiche. Durante gli anni Trenta, infatti, in tutte le economie sviluppate si era assistito all’avvio di “un moto di lunga durata, caratterizzato da un deciso spostamento di poteri decisionali dall’area privata a quella pubblica, dalla conseguente crescita degli apparati pubblici e da una notevole concentrazione di poteri pubblici nello Stato”6. Come risultato di questo processo storico andò profilandosi un modello, variamente atteggiato, caratterizzato quasi ovunque da considerevoli forme di intervento pubblico in un contesto di economia di mercato.

In particolare, le esperienze dell’Italia, della Francia e degli Stati Uniti si sono rivelate fondamentali per comprendere i modelli cui si ispirarono gli estensori del trattato quando si trattò di attribuire i poteri alla CECA e le funzioni amministrative all’Alta Autorità, oltre che procedere a delinearne la sua struttura organizzativa.

L’Italia, nel corso degli anni Trenta conobbe lo sviluppo di una peculiare forma di intervento pubblico nell’economia, sotto la spinta di diversi fattori, riassumibili, innanzi tutto, nell’antecedente formazione di amministrazioni speciali durante la prima guerra mondiale, le quali avevano introdotto nel sistema una certa dose di autonomia, rendendo meno netti i confini tra intervento pubblico ed iniziativa economica privata7. A connotare in maniera originale gli apparati amministrativi italiani avevano contribuito, in secondo luogo, i caratteri peculiari del sistema economico ed industriale della penisola, contraddistinto dalla penuria di materie prime e di capitali.

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I due elementi sinora descritti, vale a dire la debolezza del sistema economicofinanziario e la crescente assunzione di compiti delle strutture amministrative sotto l’incalzare dei problemi sociali ed economici, precipitarono nel momento in cui scoppiò la Grande crisi, innescando una reazione che condusse ad una soluzione piuttosto originale.

Il risultato più eclatante fu costituito dal delinearsi di una nuova forma di intervento pubblico nell’economia. Sulla scorta delle riflessioni sulle debolezze dell’economia italiana, Francesco...

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